Con l’obbligo di raccogliere in modo differenziato i rifiuti tessili dal 1° gennaio 2022 è necessario uno sforzo ulteriore per costruire anche una filiera del riciclo. Occorre codificare la strategia nel Programma Nazionale di Gestione dei Rifiuti (PNGR) e sostenerla con gli strumenti economici della Strategia Nazionale per l’Economia Circolare, a partire dagli obblighi di responsabilità estesa del produttore. Diversamente, il risultato sarà quello di riproporre alcune note questioni: un nulla di fatto o al più impianti pensati per rispondere ai bisogni locali, in un settore nel quale le risposte non possono che essere di area vasta.

L’impatto non trascurabile del tessile sull’ambiente

Tra le ultime campagne di sensibilizzazione destinate al consumatore finale sull’importanza del riciclo o del riuso vi sono senz’altro quelle promosse da famosissimi brand appartenenti alla cosiddetta fast-fashion quali Zara o H&M. Nulla di anomalo, visto che il settore tessile è caratterizzato da una impronta ecologica piuttosto importante. I dati pubblicati dalla Commissione Europea e dal Parlamento Europeo mostrano che questa industria è responsabile del 10% delle emissioni mondiali di gas a effetto serra, più dell’intero trasporto aereo e marittimo messi insieme. E ancora, secondo i calcoli dell’Agenzia Europea dell’Ambiente (AEA), gli acquisti di abbigliamento e prodotti tessili effettuati in Europa nel 2017 hanno generato 654 kg di CO2 per persona. Una quantità significativa, risultato di una modalità di consumo “veloce”, per l’appunto, che grazie a prezzi molto accessibili permette un costante rinnovamento di stili e, dunque, di prodotti. Dal 1996 a oggi, infatti, il prezzo degli indumenti nell’UE è calato del 30% al netto dell’inflazione, inducendo le persone ad acquistare molti più abiti, circa il 40% in più rispetto a 25 anni fa. Ovviamente più acquisti significa più rifiuti. Ogni anno, in Europa, vengono consumati quasi 26 kg di prodotti tessili pro capite e ne vengono smaltiti circa il 42% (11 kg), prevalentemente inceneriti o portati in discarica.

I dati sullo sfruttamento delle risorse idriche sono ancora più eloquenti. Nel 2015 l’industria tessile ha utilizzato 79 miliardi di metri cubi di acqua: considerando che solo per realizzare una maglietta occorrono in media 2.700 litri di acqua, si tratta all’incirca del fabbisogno idro-potabile di una persona in circa 2 anni e mezzo. L’AEA stima che la produzione tessile sia responsabile di circa il 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile a causa dei processi a cui i prodotti vanno incontro, come la tintura e la finitura, e che il lavaggio di capi sintetici rilasci ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei mari. Non solo, esso è responsabile del 35% delle microplastiche primarie rilasciate nell’ambiente e che poi finiscono nella catena alimentare.

La situazione in Italia

Ora il nuovo Piano d’Azione per l’Economia Circolare, approvato con la Risoluzione del Parlamento europeo del 10 febbraio 2021, ricomprende anche il settore tessile all’interno della strategia sull’economia circolare che dovrà essere recepita e accolta dagli Stati membri a partire dal gennaio 2022. L’Italia, intanto, ha preso la coraggiosa decisione di anticipare di tre anni (la data limite è stata fissata al 2025) l’obbligo di raccolta differenziata previsto dall’UE. Infatti, con l’emanazione del D.lgs. n.116 del 2020, dal 1° gennaio 2022 nel nostro Paese sarà obbligatorio raccogliere separatamente tali rifiuti.

Tuttavia, la sensazione è che non si sia fino in fondo preparati al salto di qualità, sia dal versante dei gestori della raccolta, in particolare per il caso di operatori non industriali, sia da quello delle aziende manifatturiere.

Per quanto riguarda la raccolta differenziata dei rifiuti tessili, in Italia nel 2019 sono stati prodotti e intercettati circa 157,7 mila tonnellate di rifiuti urbani, stabilmente intorno allo 0,8/0,9% del totale dei rifiuti differenziati, ma in crescita del 22% rispetto ai volumi raccolti nei 2015 e destinati a crescere ulteriormente dal 2022 con l’introduzione dell’obbligo di raccolta differenziata dei rifiuti tessili di origine urbana.

Osservando le macroaree, il livello di intercettazione del rifiuto tessile è sostanzialmente allineato tra Nord (2,88 kg/ab/anno), Centro (2,95 Kg/ab/anno) e Sud (2,06 Kg/ab/anno), mentre emergono delle disomogeneità a livello regionale. Alcune realtà, come Veneto, Emilia-Romagna, Toscana e Marche hanno già superato la soglia dei 3 Kg/abitante/anno di rifiuto tessile raccolto in modo differenziato, mentre regioni come Valle d’Aosta, Basilicata sono vicine alla soglia dei 4 Kg, già superata dal virtuoso Trentino Alto-Adige. I dati dei territori fanalino di coda, come Umbria e Sicilia, che raccolgono in modo differenziato meno di 1 Kg per abitante, lasciano pensare che in quelle regioni le raccolte differenziate del tessile non siano state in massima parte neanche avviate.

Inoltre, secondo le analisi merceologiche operate da ISPRA, il 5,7% dei rifiuti indifferenziati è composto da rifiuti tessili. Un dato che, se quantificato, porterebbe a circa 663mila tonnellate/anno di rifiuti tessili non riutilizzati o riciclati. Per intenderci, una cifra 4,2 volte superiore ai rifiuti intercettati dalle raccolte differenziate e che dà l’idea del potenziale che si potrebbe attivare attraverso il canale della raccolta. In termini impiantistici, ciò richiederebbe una capacità di trattamento dedicata, idealmente localizzata in prossimità delle aree di produzione, anche in considerazione delle vocazioni distrettuali dei territori.

Come fare per invertire la rotta anche nella prospettiva di un rapido aumento dei rifiuti tessili da gestire perché raccolti in modo differenziato?

Un importante punto di partenza è la definizione di una strategia sulla gestione dei rifiuti tessili, che dovrebbe giungere dal consolidamento delle pianificazioni settoriali, in particolare dal Programma Nazionale di Gestione dei Rifiuti (PNGR) e dalle pianificazioni regionali. Diversamente, il rischio è che il disegno sia affidato alle singole iniziative locali, dei Comuni e/o degli Enti d’ambito, senza alcun coordinamento, con il risultato di riproporre le note questioni circa l’inadeguatezza della scala impiantistica e del perimetro territoriale dei fabbisogni a cui si intende dare risposta: in un ambito nel quale, vista la consistenza dei flussi, le risposte non possono che essere di area vasta.

La Responsabilità Estesa del Produttore o EPR

Per uscire dall’impasse, una delle strade più promettenti sulla quale sta lavorando la Commissione UE, e quindi il Ministero della Transizione Ecologica, è quella dell’introduzione di obblighi di Responsabilità estesa del produttore (EPR). I produttori dovranno sostenere un contributo ambientale, trasferito nei prezzi d’acquisto dei prodotti, che avrà lo scopo di finanziare una filiera della raccolta tesa a rispettare la gerarchia dei rifiuti, quindi a privilegiare il riuso, a sostenere la preparazione per il riutilizzo e il riciclo. Compito di ogni schema di EPR è quello di rendere concreto il principio europeo del “chi inquina paga”, indirizzando la produzione e il consumo su forme progressivamente più sostenibili e che scoraggino il fenomeno del fast fashion (si veda Position Paper n. 137). Allo stesso tempo, l’EPR dovrebbe servire a finanziare attività di ricerca e sviluppo, puntando sull’innovazione di processo e di prodotto, indirizzando verso tecnologie in grado di ovviare alle principali criticità presenti nel recupero, per esempio, promuovendo l’eco-design e disincentivando l’utilizzo delle fibre tessili più difficilmente recuperabili. 

Ma non solo. Considerato che i rifiuti sono un aggregato di materie e sostanze non sempre omogenee e che la raccolta deve presentare la caratteristica della continuità, a qualunque condizione di mercato e per tutte le frazioni (si veda Position Paper n. 171), occorrono adeguate correzioni affinché le oscillazioni della domanda di prodotti riciclati rendano sempre sostenibile il costo della raccolta e dei trattamenti propedeutici al riutilizzo e al riciclaggio.

In generale, il contributo ambientale che accompagnerà i prodotti nel momento del loro ingresso nel mercato, che dovrebbe essere modulato sulla base dell’indice di sostenibilità del singolo prodotto, avrà non solo il compito di garantire la raccolta in ogni condizione, attenuando al minimo i contraccolpi delle dinamiche di mercato, ma allo stesso tempo dovrà orientare la produzione verso modelli più circolari, di fatto meno costosi.

Infatti, il segnale di prezzo fornito dal contributo ambientale dovrebbe orientare in ultimo anche le scelte dei consumatori. Mai come nel caso delle frazioni tessili l’ecodesign diventa strategico nel rendere possibile ed economicamente conveniente il riuso e il recupero di materia. Senza adeguati correttivi in fase di produzione si rischia solo di agevolare la raccolta differenziata, senza benefici per l’effettivo recupero.

Se poi il recupero di materie da frazioni non riutilizzabili è il vero mercato da costruire, allora sono necessari interventi di regolazione ad hoc, utili per accompagnare e sorreggere i nuovi modelli di business circolari.

Certamente il settore tessile in fatto di sinergie non parte da zero. Può vantare dalla sua di avere una innata vocazione distrettuale, considerato che più del 60% delle imprese sono situate in Toscana, Lombardia, Veneto e Piemonte. Questo vuol dire che nel nostro Paese si continua a produrre in loco, nonostante la delocalizzazione abbia prodotto i suoi effetti.

Il combinato disposto di questi due elementi potrebbe portare a una forte sinergia, laddove laproduzione di scarti di settori diversi ma complementari potrebbe risolvere la cronica assenza di materie e prime allo stesso tempo ridurre i costi di gestione degli scarti. La costruzione di nuove simbiosi industriali capaci di generare valore in un settore dal disvalore di un altro, come nel caso dell’industria agroalimentare, dovrebbe essere la strada da seguire. Insomma, le filiere distrettuali italiane concentrate geograficamente risulterebbero un contesto ideale per sperimentare modelli di produzione circolare. 

L’opportunità del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza

Anche il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) si presenta come una grande opportunità per rilanciare la filiera del recupero dei rifiuti tessili.

In particolare, in termini di risorse e di finalità, la linea di investimento 1.2 che guarda alla infrastrutturazione della raccolta delle frazioni di tessili pre-consumo e post consumo, ammodernamento dellimpiantistica e realizzazione di nuovi impianti di riciclo delle frazioni tessili in ottica sistemica cd. Textile Hubs”, rappresenta l’opportunità principale per la filiera. Infatti, l’obiettivo dichiarato nella premessa dell’Avviso diramato dal MiTE è quello di raggiungere il 100% di recupero nel settore tessile, tramite Textile Hubs, coerentemente con quanto previsto dal Piano d’Azione per l’Economia Circolare varato dall’UE.

È evidente che se le risorse del PNRR saranno sicuramente utili per sostenere gli investimenti impiantistici, allo stesso tempo occorrerà essere consapevoli che il tema centrale è quello di sostenere gli extra costi del riciclo, ossia coprire quelle diseconomie che rendono ancora oggi più conveniente le filiere dei materiali vergini rispetto a quelle da riciclo.

Da ultimo, se le dinamiche di mercato tenderanno a guidare i flussi secondo logiche economiche, allo stesso tempo dovrà essere garantita una raccolta universale e capillare per non lasciare a terra frazioni prive di valore e garantire la miglior tutela ambientale. Mai come in questo settore è d’obbligo lavorare in rete, con l’obiettivo di ridurre al minimo i costi di transazione e di semplificare l’incontro tra domanda e offerta. Sfruttando una delle tante occasioni messe a disposizione dalla rivoluzione informatica, potrebbe contribuire a generare efficienza la creazione di piattaforme web che agevolino l’incontro tra produttori e utilizzatori di materie prime seconde (in ottica di simbiosi industriale) e l’implementazione di tecnologie digitali per la tracciabilità.

Altri quattro tasselli strategici, al fine di disporre di incentivi concreti all’impiego di materie prime secondarie, sono:

  • l’accesso facilitato al credito, per chi decide di investire in attività innovative;
  • l’introduzione di incentivi fiscali per le aziende che acquistano materiale tessile riciclato;
  • l’introduzione di crediti di imposta per gli investimenti in tecnologie a basso impatto ambientale e in attività di ricerca e sviluppo;
  • l’applicazione concreta del Green Public Procurement (GPP) con i relativi criteri ambientali minimi (CAM) – in fase di revisione presso il MiTE – resi teoricamente obbligatorie per tutte le stazioni appaltanti (MATTM, 2017), prefigurando un’evoluzione verso il Circular Procurement.

Siamo dunque di fronte a un quadro in movimento e che richiede al nostro Paese – il distretto tessile più grande d’Europa – una nuova visione, per cogliere i benefici delle politiche e intercettare i fondi disponibili per gli investimenti.