La tassazione ambientale in Italia serve solo a fare cassa: solo l’1% delle risorse viene speso in protezione dell’ambiente.
Un ripensamento della tassazione ambientale è necessario, a partire dall’ecotassa, ove il gettito va vincolato a sostenere gli impianti che non sono mai stati realizzati. Un disegno che aveva ispirato il legislatore sin dalla metà degli anni ’90. Sistematicamente disarticolato e disatteso dalle regioni.

Ripreso su Staffetta Rifiuti e Greenreport.

Dove vanno a finire le nostre tasse? O meglio, come vengono ripartite e impiegate le risorse versate dai contribuenti? Questioni che saltuariamente fuoriescono dai circoli di specialisti e finiscono in pasto all’opinione pubblica. La più nota è quella relativa alle imposte sul prezzo dei carburanti secondo la quale – appurato che non esiste più la tassa dedicata al finanziamento della guerra d’Etiopia – ogni automobilista, mentre fa il pieno al distributore, contribuisce anche a sopportare gli impatti economici della crisi di Suez del 1956. Oltre a una serie di altri eventi e calamità che si perdono negli ultimi sessant’anni di vita italiana.

Molto meno frequentemente ci si interroga sulla destinazione delle imposte sull’ambiente, conosciute anche come “ecotasse”, nonostante oggi la sostenibilità e la lotta all’inquinamento siano assurti a temi di primissimo piano.

All’importanza etica si aggiunga quella economica, avendo garantito allo Stato un gettito di quasi 58 miliardi di euro (dati 2018).  Al raggiungimento di questa cifra hanno concorso, soprattutto le imposte sull’energia per 46 miliardi di euro e quelle derivanti dalla tassazione sui trasporti, circa 11 miliardi. I rimanenti 0,6 miliardi sono riconducibili a imposte ambientali sull’inquinamento.

Nello specifico troviamo che sotto la voce energia sono incluse le tasse sugli oli minerali e derivati, quelle sul carbone, sul gas metano e sull’energia elettrica. Mentre, per esempio, sotto quella automobilistica rientrano il bollo e la RC auto.

Se poi si raffronta la situazione italiana a quella europea, notiamo come la tassazione ambientale nel nostro Paese non sia propriamente bassa, con l’incidenza sul totale di imposte e contributi sociali del 7,8%, ovvero decisamente superiore alla media dellUnione europea che si ferma al 6% e a quelle delle maggiori economie, come Regno Unito (7%), Spagna (5,3%), Francia (5,1%) e Germania (4,5%).

Una consistenza che trova conferma se si guarda l’incidenza sulla costruzione del PIL nazionale, con una percentuale del 3,3%. Anche in questo caso il dato è superiore alla media degli Stati della Ue (2%) oltre che delle già menzionate maggiori economie del continente; in Germania, nazione da sempre incline a politiche green, il peso delle ecotasse sul PIL è decisamente più basso: 1,8%.

Quindi, stando ai macrodati, l’impegno italiano in politiche di protezione ambientali non può essere che corposo quanto le tasse che i cittadini pagano. Vista così sembrerebbe una buona notizia. Ma mai come in questo caso l’apparenza è ingannatrice. Infatti, avvicinandosi un po’ di più e analizzando la reale destinazione di queste imposte si scopre una situazione decisamente diversa e, soprattutto meno buona. Infatti, pur chiamandosi “imposte di scopo”, solo l’1% di queste esse è davvero utilizzato per finanziare azioni di recupero e protezione ambientale mentre il restante 99% è invece dedicato a coprire spese generali che con l’ambiente c’entrano davvero poco. Tradotto in euro significa che dei 57 miliardi e 775 milioni di euro raccolti, solo 561 milioni sono destinati agli obiettivi per i quali, noi tutti, siamo convinti di pagare.

Facciamo solo un’ipotesi per capire l’enormità della situazione. Se si potesse assicurare a finalità di scopo (cioè alla protezione dell’ambiente) anche solamente il 5% del totale (un valore comunque di circa 5 volte maggiore rispetto all’attuale), le imposte ambientali potrebbero garantire ben 2,9 miliardi di euro per il miglioramento o la mitigazione dell’impatto ambientale, ad esempio sostenendo gli investimenti in direzioni alternative coerenti.

Non occorre, pertanto, aumentare le tasse per accrescere la spesa a favore dell’ambiente. Basta dirigere nella giusta direzione le risorse già disponibili, invertendo la rotta attuale e cercando di accrescere la specificità della tassazione ambientale. Ad oggi le “ecotasse” hanno davvero poco di “eco” e moltissimo invece di “tassa”, rappresentando unicamente una fonte di prelievo fiscale – l’ennesima – analoga alle altre.

Ecotassa sui rifiuti, uno strumento prezioso ma male utilizzato

Per quanto riguarda le tasse sui rifiuti, sono comprese tra le imposte ambientali sull’inquinamento. Anche se questa affermazione non è del tutto corretta. Infatti, nel 2018, il loro pagamento ha portato nelle casse dello Stato 619 milioni di euro, di cui il 97% (603milioni di euro) proveniente dalla raccolta del cosiddetto Tributo Provinciale per la tutela ambientale e da altre “ecotasse” legate alle operazioni di smaltimento in discarica. Come dire: in Italia la tassazione sull’inquinamento è equivalente alla tassazione sui rifiuti. Una tassazione che non ha fatto che aumentare nel corso degli ultimi dieci anni, e in particolare dal 2015: + 19%, passando dai 508 milioni di euro del 2009 ai 603 del 2018.

Eppure, anche nel caso dei rifiuti, l’utilizzo delle risorse non va nella direzione dichiarata. Con una criticità in più, legata allo strumento utilizzato: il “tributo speciale discarica” o, più semplicemente, “ecotassa”. Introdotto a metà degli anni Novanta con l’obiettivo di scoraggiare la produzione di rifiuti e favorire il recupero di materia, doveva evitare dunque il ricorso alla discarica attraverso il finanziamento di soluzioni impiantistiche più sostenibili da un punto di vista ambientale. Quell’impostazione, così moderna che ben si armonizza con gli attuali criteri dell’Economia Circolare (come anche da Direttive UE), purtroppo non si è tradotta in un’efficace modulazione del tributo stesso.

Nella sua formulazione originale, al netto di un 10% del prelievo destinato al finanziamento dell’attività delle Province, la legge postulava l’impegno a impiegare il 20% del gettito rimanente al finanziamento delle iniziative di riduzione della produzione di rifiuti. Rendere, pertanto, la discarica meno conveniente, da un lato, e sostenere alternative impiantistiche, dall’altro.

Uno strumento normativo efficace che, tuttavia, negli anni ha smarrito se stesso e la sua forza. Cos’è successo? Senza l’interesse o la volontà di farla realmente funzionare, trascurata dagli Enti locali, l’ecotassa si è trasformata in uno dei tanti balzelli che compongono la galassia tributaria italiana nazionale e locale e che servono a far entrare risorse.

Il mancato adeguamento delle aliquote massime rimaste ferme ai valori di metà anni Novanta ha portato a una graduale perdita di valore (circa 1/3), passando dai 38,5€/tonnellata del 1996 ai 25,8€ del 2018 (valori attualizzati). Va ricordato che il valore medio nazionale, ponderato sui flussi in ingresso, è di poco superiore ai 5€/tonnellata, con aliquote inferiori ai 2 euro in regioni come Lazio e Molise.

Una decrescita che si è riflessa negativamente anche sul gettito: dai 470 milioni di euro del 1996 si è arrivati ai 101 milioni del 2018, facendo segnare un decremento complessivo del 79%.

Le conseguenze di questa modalità di agire sono ben visibili e raccontano di un ricorso alla discarica decisamente marcato con quote di smaltimento sul totale dei rifiuti prodotti ancora elevate. Nel caso dei rifiuti urbani si arriva fino al 22%, ovvero percentuali assai distanti dall’obiettivo indicato dalle Direttive Ue al 10% nel 2035. Se in Germania, per esempio, si è all’1%, anche dopo l’introduzione di divieti e non solo di disincentivi economici, nel Regno Unito, dove la percentuale supera il 15%, l’ecotassa è decisamente più alta di quella italiana: 98,2€/tonnellata.

Appare evidente come il mancato adeguamento del tetto massimo delle aliquote ha permesso che la soluzione discarica continuasse a essere conveniente, assolvendo al ruolo di soluzione impiantistica di riferimento e imprescindibile in molte aree del Paese. Al contempo, da più parti si lamenta la mancanza di investimenti sufficienti ad assicurare lo sviluppo di impiantistica finalizzata al recupero e al riciclaggio. L’allineamento delle aliquote reali effettive dell’ecotassa verso un livello minimo uniforme nazionale consentirebbe di aumentare il gettito e di finanziare gli investimenti necessari allo sviluppo dell’Economia Circolare. Un passo necessario per avviare gli impianti nel recupero di materia e nel riciclo di cui il Paese ha bisogno, in particolare al Sud[1] dove ogni strategia di rilancio non può prescindere da un ripensamento del ciclo dei rifiuti[2].

È certo che una tassazione ambientale per avere senso ed efficacia non può essere sganciata da obiettivi e risultati. Per due ragioni. Una di ordine pratico: deve servire allo scopo – fondamentale – di promuovere investimenti per la protezione dell’ambiente. Un’altra relativa all’etica pubblica: evitare che il tributo si trasformi nell’ennesima operazione di prelievo mascherato significa favorire una relazione trasparente tra istituzioni e cittadinanza.


[1] Si rimanda, per ulteriori dettagli, al Contributo n.147 “I distretti e la gestione dei rifiuti: la simbiosi industriale per chiudere il ciclo” del Laboratorio REF Ricerche, marzo 2020.

[2] Si rimanda per ulteriori dettagli al Contributo “Rifiuti e Mezzogiorno. Ovvero come trasformare un “fardello” in un’opportunità”, Collana Ambiente, di prossima pubblicazione.