Fragile governance, frammentazione e mancanza di operatori industriali, forti interdipendenze tra territori: sono queste le cause dei ritardi del servizio idrico nel Mezzogiorno. Affidamenti regionali e partenariati con le realtà industriali più avanzate: il rilancio del servizio idrico nel Mezzogiorno non può che ripartire da qui.

1. Servizio idrico: l’Italia divisa in due

Governance fragile, inefficace e inesperta, frammentazione e, salvo alcune note eccezioni,  carenza di operatori che lavorino secondo logiche industriali e con un approccio manageriale, ancora forti interdipendenze tra territori: sono queste – in sintesi – le cause dei ritardi del servizio idrico nel Mezzogiorno. Un complesso di elementi che si ripercuotono sullo stato delle infrastrutture idriche, sui livelli delle prestazioni assicurate e in ultima analisi sui cittadini che lì risiedono. Al di là della naturale e complessa composizione del territorio meridionale e insulare, che certamente non semplifica la situazione.

Al contrario di quanto avviene nel resto dell’Italia, chi abita nelle regioni del sud mostra una forte insoddisfazione per il livello qualitativo del servizio idrico. E ciò riguarda sia le caratteristiche organolettiche dell’acqua (odore, sapore o limpidezza) sia il modo in cui è distribuita, a partire dalla bassa pressione con la quale esce dai rubinetti fino alle interruzioni nel servizio, in certe zone così frequenti da aver abituato i cittadini a dotare le abitazioni di cisterne per accumularla.

I dati relativi alla percezione degli utenti sono chiari. Il 65,4% delle famiglie che nel 2018 hanno lamentato irregolarità nel servizio di erogazione dell’acqua nelle loro abitazioni risiede nelle regioni del Mezzogiorno; tra le più disagiate risultano Calabria e Sicilia, rispettivamente con il 39,6% e il 29,3% delle famiglie che lamentano tale inefficienza. Un problema che si presenta durante tutto l’anno nel 39,2% dei casi, nel periodo estivo nel 33,8% dei casi, mentre rimane sporadico nel restante 22% dei casi. Se a livello italiano le famiglie che dicono di non fidarsi a bere l’acqua del rubinetto sono il 29%, in alcune regioni del Mezzogiorno le percentuali sono troppo elevate: Calabria 45,2%, Sardegna 48,5% e Sicilia 53,3% (Dati Istat 2018).

L’insoddisfazione lamentata dagli utenti è confermata dall’analisi di elementi fattuali. Nel 2017, tra gli 11 capoluoghi di provincia e le città metropolitane che hanno sperimentato misure di razionamento nella distribuzione dell’acqua per uso civile ben 10 erano situate nel Mezzogiorno (con la sola eccezione della città di Latina). Ciò ha significato un totale di 2.301 giorni interessati da riduzioni o sospensioni del servizio (con la diffusa pratica del razionamento notturno).

Per non parlare del noto fenomeno delle perdite idriche nella rete, che ciclicamente sale agli onori delle cronache come elemento simbolo di cattiva gestione. In questo caso, secondo gli ultimi dati disponibili (ARERA 2017), la dispersione di acqua arriva al 51,3% nella macro-area geografica del Sud e Isole, rispetto ad una media italiana del 42,4%.

Altro pilastro del cosiddetto “water divide”, ovvero del divario esistente nel servizio fra nord-centro d’Italia e sud, riguarda la rete fognaria e la depurazione. Le forti carenze infrastrutturali e l’inadeguatezza o addirittura l’assenza di fognature o depuratori sono oggetto di ripetute sanzioni e multe da parte dell’Unione europea. Un problema che, pur non riguardando il solo Mezzogiorno italiano, trova in esso un territorio di elezione. In cifre ciò significa: dei 150 agglomerati urbani non conformi per cui si è giunti ad una condanna, 107 sono situati nel Sud e nelle Isole, in prevalenza in Sicilia (67); mentre degli 879 agglomerati oggetto della procedura di infrazione 2014/2059, 588 sono situati nel Mezzogiorno con più di 100 agglomerati in Calabria, Campania e Sicilia.

Rispetto al punto di partenza, la situazione al sud è stata risolta solo nel 29% degli agglomerati oggetto di condanna e per il 9% degli agglomerati afferenti la procedura 2014/2059.

Per non parlare di altri agglomerati sottoposti a nuove procedure di infrazione come la 2017/2181, avviata a luglio 2018, che coinvolge 276 agglomerati con più di 2.000 abitanti equivalenti sul territorio nazionale, dei quali 147 situati nel Mezzogiorno (34 in Abruzzo, 1 in Basilicata, 48 in Calabria, 4 in Campania, 1 in Molise, 14 in Puglia, 10 in Sardegna e 35 in Sicilia).

Non solo. Dal 31 maggio 2018 l’Italia è stata condannata a pagare 30 milioni di euro per ogni semestre di ritardo nella messa a norma degli oltre settanta agglomerati sopra i 15.000 abitanti sprovvisti di reti fognarie e adeguati depuratori, oltre ai 25 milioni di euro comminati una tantum.  Un ritardo che è già costato 115 milioni di euro.

Su un totale di 1.122 agglomerati mancanti di reti di fognatura o dove le acque non vengono adeguatamente depurate, 761 (67,8%) sono situati nel Mezzogiorno. Le regioni dove si riscontrano le maggiori criticità sono nell’ordine: Sicilia (263 agglomerati), Calabria (190 agglomerati), Lombardia (185 agglomerati) e Campania (118 agglomerati). Da Nord a Sud, in questi territori le reti fognarie e gli impianti di depurazione, ove presenti, sono prevalentemente gestiti direttamente dagli enti locali[1]. Le gestioni dirette degli enti locali possono dunque essere indicate come la principale causa del ritardo e del danno ambientale causato dal mancato adeguamento di fognature e depuratori ai requisiti minimi previsti dalle direttive europee degli anni Novanta.

Al mancato adeguamento o completamento di reti fognarie e depuratori, si sommano le conseguenze causate dalla re-immissione in natura di scarichi fognari non depurati e di smaltimento non corretto dei fanghi prodotti dalle attività di depurazione.Tutti i dati presentati documentano un grave stato di degrado ambientale di una vasta area del Paese.

2.  Da una governance inadeguata a un servizio carente

In apertura abbiamo inserito fra le cause del ritardo del Mezzogiorno anche una governance acerba, debole o inesperta, un’eccessiva frammentazione e la carenza di una gestione industriale e di un approccio manageriale. È sufficiente pensare alle ancora numerose gestioni comunali (dette “in economia”), con capacità tecniche e organizzative limitate e non adeguate.

Se si escludono alcune realtà industriali, quali Acqua Campania e Gori in Campania, Abbanoa in Sardegna, Acquedotto Pugliese in Puglia, Acquedotto Lucano in Basilicata e Siciliacque e Caltaqua in Sicilia, i soggetti che operano nei territori non dispongono di capacità finanziarie e organizzative coerenti con l’attivazione degli investimenti. In questi contesti anche la regolazione incentivante dell’Authority ARERA poco ha potuto, risolvendosi per lo più in diffide e nell’imposizione di tagli alle tariffe d’ufficio da parte di ARERA, molto spesso disattese o addirittura promosse come scelte dell’amministrazione locale a scopi elettoralistici in opposizione alla gestione unica d’ambito.

Non solo. Il riordino della governance locale del servizio idrico previsto dal Decreto Sblocca Italia, non ha ancora del tutto trovato applicazione in Regioni come Calabria, Molise, Campania e Sicilia: regioni in cui gli Enti di governo d’ambito (EGA) non risultano pienamente operativi e la gestione del servizio idrico in numerosi Comuni non è conforme alla normativa nazionale.

Fonte: elaborazione Laboratorio REF Ricerche

La frammentazione gestionale si ripercuote sulla realizzazione degli investimenti. Le cause del deficit infrastrutturale del Mezzogiorno non sono riconducibili tanto alla mancanza di fondi pubblici, quanto principalmente alle ridotte capacità tecniche e gestionali dei Comuni e degli Enti pubblici del territorio.

Il Laboratorio REF Ricerche ha analizzato i fondi delle politiche di coesione Italiane identificando e isolando i progetti afferenti al servizio idrico integrato. Il quadro che emerge è composto da 4.466 interventi finanziati attraverso i cicli di programmazione 2007-2013 e 2014-2020, per un ammontare totale di risorse pubbliche a disposizione pari a 10,3 miliardi di euro. Di queste, circa l’83% è destinato ai territori del Sud e delle Isole, il 12% al Nord e il 3% al Centro Italia.

L’area del Sud e delle Isole registra importanti ritardi: il tasso di conclusione degli interventi a luglio 2019 si attesta “solo” al 18%, per un ammontare di 760 milioni di euro di spesa, mentre un 22% dei progetti, corrispondenti a 1.464 milioni di euro di finanziamenti, non risulta ancora avviato.

La nostra analisi mostra come il principale soggetto attuatore siano i Comuni, che gestiscono il 61% degli interventi. La difficoltà delle amministrazioni comunali, rispetto agli altri soggetti attuatori, è testimoniata dal numero degli interventi non ancora avviati (191). Difficoltà che si riscontrano anche nei casi in cui la realizzazione è demandata ad enti pubblici non economici (38) e a ministeri, partecipate statali e commissari (31).

3. Politiche nuove per crescere e superare la situazione attuale

Se il Mezzogiorno non distruggerà le cause della sua inferiorità da sé stesso, con la sua libera iniziativa e seguendo lesempio dei suoi figli migliori, tutto sarà inutile. Così si esprimeva nel 1925 un meridionalista come Guido Dorso. Ma potevano essere anche Sturzo, Colajanni, Salvemini, Gramsci o altri intellettuali che si sono occupati della condizione del Sud Italia.

In un certo senso, lo stato del settore idrico – con le importanti ripercussioni sul piano economico e sociale – è un’altra tessera del complesso e ormai antico mosaico che prende il nome di “Questione meridionale”.

Appare infatti chiaro come all’interno del dibattito sul rilancio del servizio idrico nel Mezzogiorno, uno degli aspetti imprescindibili è quello che un tempo si sarebbe definito “culturale” e che, nel nostro caso, corrisponde a una “cultura d’impresa”), ovvero il raggiungimento di operatori industriali di dimensioni adeguate, integrati verticalmente e organizzati, depositari del know-how per la realizzazione e la gestione di opere tecnicamente complesse, in grado di reperire le risorse finanziarie e di dare attuazione ai programmi di investimento, con incrementi tariffari accettabili e un efficiente utilizzo dei contributi pubblici a fondo perduto a disposizione.

La complessa configurazione idrografica delDistretto dell’Appennino Meridionale e di quelli di Sicilia e Sardegna, unita all’obsolescenza delle sue infrastrutture, suggeriscono un approccio output-based, basato su piani strategici di lungo periodo e sulla necessità di una governance istituzionale con una visione olistica nella pianificazione delle risorse, non centrata esclusivamente sugli usi civili, ma anche su quelli dei comparti industriali e irrigui. Un governo che sia in grado anche di integrare nel prezzo della risorsa i costi delle esternalità negative ambientali prodotte dal suo utilizzo, riportandoli in capo a chi le ha causate indirettamente, e generando le risorse per riabilitare l’ecosistema danneggiato. A questo si dovrebbe affiancare un operatore pubblico che gestisca le interdipendenze regionali dell’approvvigionamento.

Per un rilancio del servizio idrico nel Mezzogiorno è quindi necessario lavorare su più fronti: un ruolo attivo dell’Autorità di Distretto nella gestione delle funzioni pubbliche di governo della risorsa, un operatore pubblico che gestisca le interdipendenze regionali dell’approvvigionamento e operatori industriali a controllo pubblico, verticalmente integrati e di scala regionale, con competenze e know-how da costruire anche tramite partenariati con le realtà industriali più avanzate. 


[1] Le informazioni raccolte in questi ultimi mesi dal MATTM e inviate alla Commissione fanno registrare una significativa riduzione in Lombardia degli agglomerati nella procedura di infrazione 2014/2059, mentre non si osservano avanzamenti di rilievo in Sicilia, Calabria e Campania.