L’Italia si colloca all’interno dell’hot-spot del Mediterraneo, un’area particolarmente vulnerabile agli effetti del cambiamento del clima. Le conseguenze per la gestione della risorsa idrica sono inevitabili perché impianti e infrastrutture saranno soggetti a maggiori rischi. Si tratta di adottare un nuovo approccio alla pianificazione industriale e alla gestione delle reti e degli impianti del servizio idrico. Tassonomia UE e rendicontazione non finanziaria sostengono il cambio di paradigma.
Ora la Pianificazione industriale deve considerare anche i rischi climatici
Dopo gli accesi dibattiti in questo primo scorcio di secolo, la tesi della marginalità dell’azione umana nella comparsa del fenomeno del riscaldamento globale sembra ormai irrilevante. A ribadire l’inequivocabile conferma del peso delle attività dell’uomoci ha pensato la pubblicazione (2021) del Sesto Rapporto di valutazione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), massima autorità scientifica in materia di cambiamento climatico delle Nazioni Unite.
E da questo studio emerge un dato preoccupante: nel periodo 2011-2020 la temperatura è stata più alta di oltre un grado centigrado rispetto al periodo 1850-1900. Fenomeni meteorologici sempre più estremi, oltre a una serie di conseguenze come scioglimento dei ghiacciai, frequenti incendi, minore produttività delle colture hanno gravi ripercussioni sugli ecosistemi del Pianeta e sulla disponibilità di una delle risorse essenziali per la vita stessa sulla Terra: l’acqua.
E l’Italia, in questo quadro, non è esente da rischi. Il nostro Paese si trova in un cosiddetto hot-spot del cambiamento climatico, caratterizzato da conseguenti rapide variazioni dei fenomeni meteorologici. Se a livello globale l’obiettivo per fine secolo è mantenere entro 1,5°C l’aumento della temperatura globale, l’Italia ha già sforato questo limite e diversi modelli climatici concordano nel confermare un aumento di 2°C nel periodo 2021-2050 (rispetto al 1981-2010). A cosa si va incontro?
Oltre all’aumento consistente delle temperature, un altro impatto di ampia portata consegue dalla diminuzione della frequenza delle pioggea cui si associa un aumento della loro intensità: il numero di giorni asciutti nel 2020 è stato particolarmente elevato in diverse aree del territorio, con una riduzione della precipitazione cumulata pari al -5%. Un dato che va letto anche alla luce delle forti oscillazioni, con picchi del +109% a dicembre e del -77% a febbraio a livello nazionale.
Per comprendere in che misura un dato settore o territorio sarà influenzato dal cambiamento climatico – e i possibili scenari – il Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC) prende a riferimento, tra gli altri, tre indicatori che hanno a che fare con eventi di pioggia intensa, numero di giorni secchi consecutivi e le cosiddette notti tropicali, ossia i giorni con temperatura minima maggiore di 20°C.
A questa analisi va integrato un altro elemento, rappresentato dall’innalzamento del livello del mare e delle sue temperature superficiali, dell’acidificazione dello stesso e dell’erosione costiera, le cui conseguenze catastrofiche colpiranno gli ecosistemi marini e la vita nelle zone costiere.
Quali impatti sul sistema idrico. I rischi fisici
Il quadro sopra esposto avrà inevitabilmente impatto sulla gestione della risorsa idrica sia in termini quantitativi che qualitativi. Impianti e infrastrutture del servizio idrico saranno soggetti a maggiori rischi da affrontare in termini di danni e disservizi che potrebbero concretizzarsi con più frequenza e con oneri sempre più rilevanti. In particolare, si prospetta una riduzione della quantità della risorsa idrica rinnovabile, sia superficiale che sotterranea, a causa di un insieme di fattori.
Innanzitutto, la variazione nella frequenza e nell’intensità delle precipitazioni avrà un impatto negativo sulla ricarica della falda, rispettivamente a causa delle minori portate e per via del minore assorbimento da parte del terreno. L’incremento delle temperature e i conseguenti eventi siccitosi, la diminuzione dell’accumulo del manto nevoso e lo scioglimento anticipato della neve causeranno un aumento del flusso invernale nei fiumi montani con minori portate fluviali nelle acque superficiali e nei serbatoi durante la stagione calda, un fenomeno già oggi critico.
In termini qualitativi, poi, i fenomeni di precipitazione estrema potrebbero danneggiare le infrastrutture, causando tracimazioni delle acque reflue e conseguente potenziale contaminazione delle acque superficiali e sotterranee. La qualità dell’acqua tenderà a degradarsi anche a causa dell’aumento della biomassa vegetale nella forma di alghe e alla riduzione dei livelli di ossigeno dissolto, esacerbati da fenomeni di siccità e di evapotraspirazione con conseguente aumento della concentrazione di contaminanti. La siccità, inoltre, unita all’innalzamento del livello del mare potrebbe comportare l’intrusione di acqua salata nelle riserve di acqua dolce.
I fenomeni citati di aumento della concentrazione di inquinanti porranno sotto stress le infrastrutture di trattamento dell’acqua potabile e delle acque reflue, con conseguente aumento dei costi di adeguamento e manutenzione degli impianti di depurazione.
Altri rischi, quelli di transizione
Sebbene i rischi fisici siano più direttamente identificabili nel settore idrico per la natura stessa della sua attività, il settore è anche esposto ai rischi di transizione. Tra di essi vi sono:
- un rischio giuridico, qualora le normative europee, nazionali o locali, rendessero necessarie strategie di adattamento al cambiamento climatico, con la previsione di sanzioni in caso di mancato adempimento da parte degli operatori;
- un rischio reputazionale. Gli attori che per necessità o volontà pubblicano una Dichiarazione Non Finanziaria (DNF) si troveranno dal 2022 – con l’eleggibilità prima e con l’allineamento poi – a dover rendicontare la percentuale di attività ecosostenibili secondo i criteri della Tassonomia UE. In caso contrario andranno incontro a ripercussioni sul rapporto fiduciario con gli stakeholder.
Infine, al rischio reputazionale è legata l’attrattività nei confronti del sistema creditizio e degli investitori istituzionali, che in misura crescente porrà enfasi sull’impegno profuso dalle aziende nella lotta e nell’adattamento al cambiamento climatico.
Task Force on Climate-Related Financial Disclosures (TCFD)
Dati i numerosi rischi legati al cambiamento climatico che possono gravare sulle attività delle imprese del settore idrico, negli anni si è resa necessaria l’esigenza di regolamentarne gli impatti. Così è accaduto in Europa, con lo sviluppo di un articolato quadro normativo-regolatorio.
A questo si sono affiancate iniziative internazionali volte a strutturare e a rendere conto della gestione del rischio del cambiamento climatico in modo sistemico come la Task Force on Climate-Related Financial Disclosures (TCFD). Creata nel 2015 dal Financial Stability Board per sviluppare raccomandazioni, pubblicata nel 2017, dovrebbe consentire decisioni di investimento più informate sull’esposizione ai rischi legati al clima e migliorare la resilienza del settore finanziario.
Le raccomandazioni della TCFD hanno suggerito un framework secondo cui gli investitori dovrebbero essere facilitati nel capire come le imprese valutano e gestiscono i rischi legati al clima. Esse si basano su quattro pilastri tematici – governance, strategia, gestione del rischio e metriche/target – supportati da 11 informative finanziarie che raccomandano di descrivere i rischi e le opportunità legati al clima identificati nel breve, medio e lungo periodo, i relativi impatti e il grado di resilienza della strategia aziendale rispetto a tali rischi, prendendo in considerazione vari scenari climatici.
Uno scenario è un percorso di sviluppo che conduce ad un risultato specifico e che ha l’obiettivo di evidenziare elementi chiave di un possibile futuro, piuttosto che dare una rappresentazione esaustiva dello stesso. È descritto come uno strumento per stimolare il pensiero strategico e prepararsi a contemplare delle alternative future che potrebbero alterare notevolmente le assunzioni delle condizioni del business attuale (business-as-usual).
In questo senso, gli scenari di transizione identificano un limite di riscaldamento globale da rispettare e presentano assunzioni su possibili sviluppi delle politiche sul clima e delle tecnologie climate-friendly per limitare le emissioni. Gli scenari climatici fisici, invece, descrivono gli effetti sul clima delle variazioni dei gas serra in atmosfera: per esempio, uno scenario potrebbe analizzare gli effetti sul clima di un aumento della temperatura di + 4°C.
I gestori del servizio idrico potrebbero essere primariamente interessati agli scenari climatici fisici in quanto i cambiamenti del clima avranno forti impatti sul ciclo idrologico. Tuttavia, le considerazioni riguardanti la transizione – ossia le modifiche alle politiche, le innovazioni tecnologiche ecc. – sono complementari e fondamentali per comprendere appieno le implicazioni del cambiamento climatico. Inoltre, gli scenari fisici e quelli di transizione sono strettamente legati: uno scenario di transizione che prende a riferimento il livello limite di riscaldamento di 2°C implica necessariamente una valutazione degli impatti che tale soglia di riscaldamento determina sul clima.
La TCFD nella rendicontazione non finanziaria delle multiutility italiane
Analizzando la diffusione dell’utilizzo delle raccomandazioni della TCFD all’interno delle Dichiarazioni non finanziarie (DNF) pubblicate dai gestori del servizio idrico in Italia, si riscontra una consapevolezza molto limitata sull’importanza di valutare i rischi del cambiamento climatico seguendo una struttura di riferimento globalmente condivisa.
Infatti, soltanto 5 gestori sui 13 (il 38%) che hanno pubblicato una DNF al 31 dicembre 2020 citano nel proprio documento tali raccomandazioni e la volontà di implementarne l’utilizzo. In particolare, tra le gestioni consapevoli, 4 enunciano l’allineamento o la prosecuzione nel percorso di allineamento della propria DNF alle richieste della Task Force: si tratta delle multiutility A2A, Acea, Hera e Iren.Il dettaglio di allineamento alle raccomandazioni varia, e attualmente prevalgono le gestioni che stanno attuando un percorso di applicazione della metodologia TCFD piuttosto che quelle con un allineamento completo.
In generale, però, si evince che le gestioni che si stanno avvicinando alla TCFD sono accomunate da una chiara consapevolezza sulla classificazione dei rischi del cambiamento climatico, con una distinzione tra i rischi di transizione e fisici, riconoscendo la differenza tra un rischio fisico cronico e acuto.
Nelle restanti gestioni, la rendicontazione dei rischi legati al cambiamento climatico non è totalmente assente. L’inserimento dell’informativa legata alla TCFD nel documento di sostenibilità risulta ancora essere facoltativa e il dettaglio varia notevolmente da un operatore all’altro. Nello specifico:
- per quanto riguarda i rischi fisici, il 69% delle DNF analizzate identifica almeno un rischio fisico legato al cambiamento climatico;
- una minor consapevolezza la si evince per quanto riguarda i rischi di transizione. In meno della metà delle DNF analizzate (nel 46% dei casi) si esplicita una correlazione tra rischi non fisici e cambiamento climatico e tali rischi vengono inseriti all’interno delle tipologie di rischio ESG.
Soltanto i 4 soggetti che applicano la TCFD sembrerebbero essere pienamente consapevoli dei rischi generati dalla transizione ecologica, dai cambiamenti nelle politiche nazionali e sovra-nazionali, dalle innovazioni tecnologiche in avvenire. Tra queste gestioni prevalgono i rischi legati alle politiche e quelli giuridici, nominati da tutte e 4 le gestioni. Oltre ad esse, vi sono due operatori che, senza realizzare una specifica analisi, correlano rischi finanziari o di mercato al cambiamento climatico all’interno dell’analisi dei rischi ESG.
Il Piano di adattamento della Tassonomia UE
Dal 2022, vige l’obbligatorietà, per le imprese che pubblicano la DNF, di includere informazioni sulle attività ecosostenibili ai sensi del Regolamento sulla Tassonomia UE, che richiede, tra gli altri, adempimenti riguardo la gestione dei rischi climatici (si veda anche Position Paper n. 195). Con conseguente un aumento della platea di imprese che dovranno introdurre o integrare l’analisi dei rischi ai cambiamenti climatici nella gestione aziendale e nelle proprie scelte strategiche.
Tuttavia, se la TCFD focalizza l’attenzione sugli impatti finanziari del cambiamento climatico e adotta una visione ampia dei rischi, comprendendo anche i rischi di transizione, l’Atto Delegato sul Clima (Regolamento 2021/2139) richiede uno sforzo più incentrato sull’analisi dei rischi fisici e sullo sviluppo di un reale piano di adattamento.
Il primo passaggio richiesto dalla Tassonomia UE è quello di identificare i rischi climatici fisici che potrebbero impattare una determinata attività e le funzionalità dei suoi asset durante il proprio ciclo di vita. Alcuni rischi fisici vengono suggeriti all’interno dello stesso Atto Delegato che richiama la distinzione già presente per la TCFD tra rischi fisici cronici e acuti e si distingue ulteriormente a seconda dell’elemento impattato – temperatura, vento, acqua, massa solida.
Il secondo passaggio è volto a comprendere la rilevanza dei rischi climatici fisici attraverso una valutazione degli stessi e della vulnerabilità dei propri progetti/asset, che sia proporzionale alla portata dell’attività e alla sua durata (con valutazioni variabili a seconda che siano inferiori o superiori a 10 anni).
Le proiezioni climatiche e la valutazione degli impatti devono tenere conto delle conoscenze scientifiche più aggiornate per l’analisi della vulnerabilità e del rischio e delle relative metodologie, in linea con le relazioni dell’IPCC o delle pubblicazioni scientifiche.
Se per il primo step si è registrato un ampio riscontro nelle DNF, per il secondo si rileva invece un’assenza diffusa. Meno della metà delle gestioni in questione ha già effettuato questo passo, mentre tra le restanti, alcune hanno avviato l’analisi degli scenari e altre hanno condotto studi limitatamente ad alcune aree aziendali.
Tale risultato non stupisce. Infatti, il secondo passaggio richiede sicuramente un salto di livello rispetto al primo. In particolare, l’analisi degli scenari climatici e la valutazione dell’impatto richiesti sottendono una conoscenza molto approfondita della materia e, spesso, il supporto di una consulenza esterna, onerose sia dal punto di vista dei tempi che delle risorse economiche.
Il terzo passaggio prevede una valutazione delle soluzioni di adattamento che possono ridurre i rischi climatici fisici identificati e che devono essere implementate nel giro di cinque anni. Inoltre, non devono influire negativamente sugli sforzi di adattamento o sulla resilienza ai rischi climatici fisici di altri soggetti e devono favorire le soluzioni basate sulla natura (Nature-based solutions – NbS) o le infrastrutture blu o verdi. È necessario che le misure di adattamento siano coerenti con i piani e le strategie di adattamento sia a livello locale che nazionale.
Per verificare l’efficacia delle soluzioni considerate e implementate è richiesto di individuare indicatori predefiniti da monitorare per valutare la riduzione del rischio e nel caso prevedere azioni correttive. Se la soluzione attuata è fisica e rientra tra le attività previste dalla Tassonomia, essa deve infine sottostare ai criteri Do No Significant Harm qualora fossero previsti per tale attività.
Interessante notare che le stesse gestioni che hanno già intrapreso il secondo step abbiano anche già elaborato soluzioni di adattamento ai rischi rilevanti individuati. Infatti, lo sforzo maggiore risiede nel transitare da una mappatura dei rischi ad una valutazione quantitativa degli stessi che richiede conoscenze tecniche approfondite. Una volta disponibile uno scenario dei potenziali impatti climatici sulla quantità e la qualità dell’acqua o sulle infrastrutture si può far ricorso alle conoscenze tecniche di alcune funzioni aziendali. L‘analisi svolta sulle DNF mostra che la strada da fare per rispondere adeguatamente alle richieste della Tassonomia è ancora lunga per molti gestori. Si riscontra infatti nella metà dei casi l’incapacità di andare oltre la mappatura dei rischi, ossia di comprendere come concretamente potrebbe impattare il cambiamento climatico sulle attività aziendali. Di conseguenza, il mancato adeguamento delle proprie attività alle richieste della Tassonomia, si ripercuote non solo sulle performance delle organizzazioni, ma anche sugli interessi più diffusi degli stakeholder.