Il confronto europeo sui rifiuti prodotti dalle imprese restituisce un’Italia in cima alla graduatoria: la produzione di rifiuti per unità di PIL è superiore a quella degli altri maggiori Paesi UE. La distanza matura soprattutto nei rifiuti prodotti dal trattamento dei rifiuti (scarti e fanghi). In parte per la maggiore propensione italiana al riciclo, in parte per la mancanza di impianti di chiusura del ciclo. L’esperienza d’oltralpe indica alcune direzioni di lavoro: dall’efficientamento dei trattamenti intermedi, al sostegno alla cessazione della qualifica di rifiuto (EoW) e ai sottoprodotti, al recupero energetico.

Il Position Paper è stato presentato in diretta su YouTube ed è stato ripreso su StaffettaRifiuti.

Campioni d’Europa anche nel riciclo dei rifiuti?

Non solo primi, ma anche con distacco. Benché sia più ciclistica che calcistica, la metafora bene illustra le performance dell’Italia in materia di riciclo dei rifiuti speciali e, in senso più ampio, nell’economia circolare (si veda Position Paper n. 191). Fra gli Stati del Vecchio Continente, il nostro Paese guida la classifica del riciclo con percentuali che sfiorano l’80%. La Francia, seconda, è distante quasi 25 punti, la Germania terza a 37.

Una posizione di preminenza risultato di diversi fattori. Innanzitutto, rileva la cronica mancanza di materie prime vergini (MPV) o – se si preferisce – è la storia di un Paese da sempre abituato a convivere con la scarsità di risorse naturali. Oltre che, a trasformare gli scarti dei processi di lavorazione in input per altri processi produttivi (MPS), come alternativa alla più costosa importazione. Una tendenza, consolidatasi nel tempo, che non potrà che rafforzarsi in futuro, specialmente se l’attuale andamento dei prezzi di mercato delle MPV, e le tensioni geopolitiche che ostacolano il commercio internazionale, dovessero rafforzarsi.

In secondo luogo, un apporto essenziale arriva dalla qualità del tessuto economico-produttivo italiano e degli operatori industriali nelle filiere del riciclo, che hanno consolidato nel tempo la tradizionale spinta propulsiva al recupero dei materiali.

Alla luce delle peculiarità sopra esposte, è come se l’Italia avesse maturato una sorta di vantaggio comparato rispetto agli altri Paesi, dovendo far fronte ad un contesto geopolitico particolarmente sfavorevole. Il Belpaese occupa, infatti, la prima posizione – tra i grandi Stati europei – quanto a produttività delle risorse, espressa in euro di PIL per kilogrammi (kg) di risorse consumate. A ciò si aggiunge un più basso consumo interno di materiali, misurato in tonnellate pro capite.

Guardando alla circolarità dei materiali, l’Italia risulta poi essere pressoché allineata al primato francese. L’indice misura la quota di materiale riciclato e reimmesso nell’economia, risparmiando così l’estrazione di MPV, rispetto all’uso complessivo dei materiali. Infatti, se per la Francia tale tasso si attesta al 20% nel 2019, per l’Italia il risultato è pari al 19,5%. Valori ben al di sopra del 12,3% della Germania e del 10% della Spagna, così come della media Ue, corrispondente all’11,8%.

Nel complesso, questi pochi dati tratteggiano un’eccellenza in ambito europeo. Pur tuttavia, negli anni recenti non sono mancati episodi nei quali il nostro Paese è apparso in difficoltà nella gestione dei rifiuti prodotti dalle attività economiche. Criticità che si sono tradotte in aumenti dei costi di gestione, rincari dei corrispettivi di trattamento e perdite di competitività per le imprese (si vedano i Position Paper n. 107 e 143).

I rifiuti delle attività economiche: Italia

Come arrivare a una quantificazione reale dei rifiuti da attività economiche in Italia? Basandosi sulle statistiche pubblicate da Eurostat, che riclassifica le informazioni trasmesse dagli istituti di statistica nazionale (ISTAT, che per il nostro Paese comunica i dati trasmessi da ISPRA), nel 2018 la produzione di rifiuti complessiva ha raggiunto i 172 milioni di tonnellate. Da questa quantità abbiamo sottratto circa 60 milioni di tonnellate di rifiuti minerali e altre 30 milioni di tonnellate di rifiuti di origine domestica. Le 82 milioni di tonnellate rimanenti possono essere verosimilmente considerate il prodotto delle attività economiche.

Di questa quantità, metà proviene dalla gestione delle acque e degli stessi rifiuti, che totalizzano 40,9 milioni di tonnellate di produzione. Seguono, a distanza, i rifiuti delle attività manifatturiere, pari a 24,7 milioni di tonnellate, che dunque rappresentano circa il 30% dei rifiuti prodotti dalle attività economiche.

Per quanto concerne la tipologia di rifiuto, il 33% è classificabile come rifiuto derivante dal trattamento dei rifiuti, ovvero poco meno di 26,7 milioni di tonnellate. In questa categoria, sono contabilizzati, tra gli altri, gli scarti dei processi di selezione e i percolati.

I dati Eurostat confermano come la principale categoria di rifiuto prodotto dalle attività economiche sono proprio i rifiuti decadenti dal trattamento dei rifiuti. Questa evidenza si presta ad una duplice lettura: da un lato, rappresenta l’esito di un modello di gestione improntato alla massimizzazione del recupero di materia; dall’altro lato, sottende una “ridondanza” di trattamenti in risposta alla carenza di impianti di chiusura del ciclo.

Il “disaccoppiamento”, un fattore da non sottovalutare

Per ora abbiamo considerato numeri che premiavano il nostro Paese per capacità di riciclare e percentuali di circolarità. Tuttavia, c’è un “ma” (si veda Position Paper n. 189) che chiama in causa il legame esistente tra reddito e produzione di rifiuti, secondo il quale a una maggiore intensità dell’attività economica (e quindi, ad un maggiore flusso di reddito creato) corrisponde anche una maggiore quantità di rifiuto prodotto. Una situazione che purtroppo in Italia ben conosciamo, visto che la produzione di rifiuti delle attività economiche – dati alla mano – rimane saldamente “ancorata” all’andamento del PIL, peraltro con un’intensità che non si riduce nel tempo.

Con il meccanismo del decoupling o “disaccoppiamento” si potrebbero, invece, preservare i livelli di benessere raggiunti riducendo al contempo il nostro impatto ambientale, minimizzando il trade-off tra economia e ambiente. Raggiungere questo obiettivo consentirebbe di archiviare gli scenari di “decrescita felice” e abbracciare con maggior convinzione un paradigma di sviluppo fondato sulla tutela dell’ambiente.

È interessante, in questo senso, analizzare l’esperienza degli altri maggiori Paesi europei, e segnatamente di Germania, Francia e Spagna, a confronto con quella del nostro Paese.

Tra il 2010 e il 2018, Italia e Spagna fanno registrare crescite sostenute nei volumi di rifiuti prodotti, a fronte di incrementi più contenuti per il PIL: nel caso specifico del nostro Paese, a fronte di un PIL reale rimasto sostanzialmente fermo, si osserva un aumento del 23% dei rifiuti prodotti dalle attività economiche. Al contrario, Francia e Germania presentano una dinamica più sostenuta del PIL e un incremento meno che proporzionale dei rifiuti prodotti dalle attività economiche.

Come si può osservare, nel periodo considerato, Italia e Spagna appaiono ben lontane dal disaccoppiamento tra andamento dell’attività economica e produzione di rifiuti: in Italia la produzione specifica di rifiuto per unità di PIL è addirittura aumentata. In Germania l’intensità rimane sostanzialmente stabile. Diversamente dal caso della Francia dove la crescita economica dello scorso decennio documenta una riduzione della produzione di rifiuto per unità di PIL.

A complemento dello studio sulla correlazione tra i rifiuti delle attività economiche e il PIL, è stato calcolato un indice che misura l’intensità della produzione di tali rifiuti per unità di PIL, espresso in kg per migliaia di euro. Ciò che emerge è che l’Italia è un Paese ad alta intensità di rifiuto, con l’indicatore che nel periodo 2010-2018, passa dai 39 kg di rifiuto prodotto per migliaia di euro di PIL del 2010 ai 48 del 2018. Un’intensità decisamente superiore a quella della Francia, ovvero la nazione costantemente più virtuosa da questo punto di vista, lungo l’intero lasso temporale con 32. Vengono poi Germania con 37 e Spagna con 42.  

Da dove deriva questa distanza? Specialmente per tipologie come: rifiuti da trattamento dei rifiuti, rifiuti liquidi da trattamento dei rifiuti, fanghi industriali e comuni, rifiuti plastici e veicoli fuori uso. Sono queste che, rappresentando circa il 40% della produzione totale di rifiuti delle attività economiche, contribuiscono maggiormente a segnare la distanza tra Italia e Francia (17 kg per 1.000 euro di PIL).

Non solo. Gran parte di questa distanza matura poi in due ambiti: la produzione di rifiuti, liquidi e solidi, da attività di trattamento dei rifiuti, da un lato; la produzione di fanghi industriali e urbani, dall’altro lato. Per tali categorie, appare manifesta la più elevata intensità di produzione del nostro Paese, non unicamente rispetto alla Francia, ma anche rispetto agli altri Stati europei.

In questi ambiti, e nelle esperienze dei maggiori Paesi europei, vanno dunque – con ogni probabilità – ricercate le possibilità di miglioramento in chiave di prevenzione, riciclo/recupero e di efficientamento più complessivo della gestione.

Più rifiuti da rifiuti degli altri?

Come detto in precedenza, i rifiuti da rifiuti rilevano per circa un terzo del totale nel 2018: 26,7 milioni di tonnellate. Un dato più che doppio rispetto ai 12,2 milioni della Francia, superiore a quello della Spagna, ma inferiore a quello della Germania.

Un aspetto meritevole di attenzione è la valutazione dell’incidenza relativa dei rifiuti secondari sui rifiuti primari. In termini relativi, l’Italia presenta un’incidenza percentuale superiore a quella degli altri Stati analizzati. A fronte del 18% fatto segnare dall’Italia, la Spagna si attesta al 15%, con la Germania che si ferma al 12%, mentre la Francia si colloca ben distante dagli altri Paesi, con il 4%.

Nel complesso, i numeri esposti confermano una maggiore produzione di rifiuti da rifiuti in Italia, rispetto agli altri maggiori Paesi europei. E anche la particolare virtù del caso francese. Una peculiarità che può essere letta in esito all’ampio ricorso in Italia a forme di trattamento intermedie nel ciclo di gestione.

Se poi si vuole comprendere ancora meglio dove maturano le principali distanze tra i Paesi sui rifiuti da rifiuti, è necessario soffermarsi su due delle tre sotto-categorie precedentemente elencate: scarti da selezione e fanghi.

  • Agli scarti di selezione appartengono i residui della cernita in uscita dai processi di selezione meccanica per i rifiuti, il combustibile da rifiuti e le frazioni non compostate di rifiuti biodegradabili. I dati per l’anno 2018 evidenziano che in Italia gli scarti della selezione sono superiori, circa 9,9 kg per 1.000 euro di PIL, rispetto a quelli di Germania (5,6) e Francia (3,1), ma inferiori a quelli della Spagna (13,6). In termini assoluti, per l’Italia, tale ammontare si attesta a 17,6 milioni di tonnellate. Una riflessione, attinente agli scarti da selezione, è quella di valutare la loro incidenza sul totale dei rifiuti prodotti, al netto dei principali rifiuti minerali. Per l’Italia il valore è pari al 16% nell’anno 2018, distante da quello della Spagna (23%), ma al di sopra di quello di Germania (12%) e Francia (7%). L’alta incidenza degli scarti non è di per sé un tratto negativo, che però deve essere letta alla luce di alcune considerazioni. Da un lato, è un’ulteriore conferma delle peculiarità di un modello di gestione fortemente orientato al recupero di materia. Dall’altro lato, è anche la cartina di tornasole della mancanza di impianti per la chiusura del ciclo. Quest’ultimo aspetto è evidente soprattutto con riferimento ai rifiuti indifferenziati di origine urbana, sottoposti a trattamenti al solo fine di sganciarli dai principi di autosufficienza regionale nello smaltimento e poter essere quindi esportati in altre regioni o all’estero. Diversamente, il peso inferiore degli scarti negli altri Paesi è spiegato dal maggiore ricorso al recupero energetico. Una modalità di gestione, questa, che chiude il ciclo dei rifiuti riducendo al minimo i trattamenti intermedi. Specialmente in un Paese come l’Italia dove il ricorso al recupero energetico è decisamente residuale (Position Paper n. 191).
  • I fanghi pesano per il 14% sul totale dei rifiuti prodotti dalle attività economiche (2018). Si tratta di 6,1 milioni di tonnellate di fanghi comuni, a cui si sommano 5,7 milioni di tonnellate di fanghi industriali e altri rifiuti liquidi. Il volume totale di questi fanghi prodotti, pari a 11,7 milioni di tonnellate nel 2018, è decisamente superiore a quanto registrato come negli altri Paesi: 3,5 milioni di tonnellate in Germania, 2,2 per la Spagna e 2 per la Francia. Anche rapportando la produzione di fanghi al PIL, si nota la più alta intensità di produzione di tale frazione per l’Italia pari a 9,5 kg per 1.000 euro di PIL, circa 5 volte superiore a quella dei maggiori Paesi UE. Soprattutto dal confronto con la Germania, è evidente che al nostro Paese paiono mancare soluzioni tecnologiche che ne riducano i volumi in principio, come l’essicazione e la riduzione delle sostanze secche nel trattamento dei fanghi, ma anche forme di recupero dei nutrienti e del fosforo in sito e il riutilizzo delle acque reflue.

Quindi, parte della risposta a queste questioni va ricercata nell’annosa difficoltà a disciplinare la materia, in particolare per quanto concerne lo spandimento in agricoltura dei fanghi e i criteri di End of Waste (EoW) relativamente al recupero di fosforo e di nutrienti.

Infine, tra le filiere che compongono i rifiuti delle attività economiche, vi sono poi i rifiuti plastici e i veicoli fuori uso. Complessivamente, in Italia, si tratta di 5,4 milioni di tonnellate, il 7% di quelli prodotti dalle attività economiche, ripartiti come segue:

  • Rifiuti plastici: 3 milioni di tonnellate, 4% di incidenza relativa.
  • Veicoli fuori uso: 2,4 milioni di tonnellate, 3% di incidenza relativa.

Entrambe le categorie saranno investite da profondi cambiamenti nei prossimi anni, motivo per cui occorre fin da ora indicare la strada per perseguire l’efficientamento delle stesse.

Quindi, cosa è emerso dal confronto con i principali Stati dell’Unione? Se non sono in discussione le performance italiane nel riciclo e nell’economia circolare, a richiedere attenzione, però, è la più alta intensità di produzione di rifiuti da attività economiche e la carenza di impianti in grado di “chiudere il ciclo”. Con la produzione di rifiuti da parte del sistema produttivo che, negli ultimi anni, ha corso più del PIL. Una conferma, dunque, dell’assenza di un disaccoppiamento tra il ciclo economico e la produzione di rifiuti, che invece sembra documentata nell’esperienza dei maggiori Paesi, come Francia e Germania.