Quando avremo costruito e messo in funzione i depuratori mancanti, circa 4,4 milioni di tonnellate di fanghi di depurazione dovranno essere gestite in Italia ogni anno. Alcuni operatori del servizio idrico stanno realizzando poli impiantistici che integrano il recupero dei nutrienti e dell’energia contenuti nei fanghi. Un percorso promosso e incentivato dalla regolazione ARERA.
Ripreso su Ricicla News, Staffetta Acqua, Staffetta Rifiuti, WaterGas, WelfareNetwork.
Fanghi. Produzione, gestione e impianti
Il ciclo idrico “si chiude” quando la risorsa prelevata dalla fonte viene restituita in natura debitamente depurata. Un passaggio, quest’ultimo, fondamentale nell’azione di tutela ambientale alla quale siamo tutti tenuti a contribuire. In Italia risultano in esercizio oltre 18mila impianti di depurazione delle acque reflue urbane (2018), un numero che, pur in aumento, non è tuttavia sufficiente a soddisfare i fabbisogni della popolazione. Infatti, ancora oggi, 1,6 milioni di cittadini vive in aree prive di depuratori.
Questa mancanza è all’origine di procedure di infrazione da parte dell’Unione europea. Tra quelle legate a inadempienze e violazioni in ambito ambientale (ben 16) 3 riguardano la gestione dei rifiuti e 5 il servizio idrico; di queste ultime, 4 si riferiscono alla mancata o errata applicazione della Direttiva 91/271/CEE dei primi anni Novanta, relativa alla raccolta, al trattamento e allo scarico delle acque reflue. Si è di fronte – com’è evidente – a un problema di trascuratezza e cattiva gestione a diversi livelli di responsabilità con riflessi negativi sull’ambiente, sui cittadini e sulle casse dello Stato, costretto a pagare salate ammende pecuniarie.
Questo appena descritto è un aspetto. Ve ne è un altro – ad esso vincolato – che riguarda la produzione dei cosiddetti “fanghi”, ovvero della frazione di materia solida che rimane alla fine del processo di depurazione.
Un problema che se già oggi necessita di risposte efficaci, ancora più ne avrà bisogno in futuro, quando si saranno costruiti e messi in funzione i depuratori mancanti. A quel punto saranno circa 4,4 i milioni di tonnellate di fanghi di depurazione prodotti ogni anno.
Che siano problema o risorsa dipende dal modo in cui verranno gestiti. Infatti, se ben valorizzati, i fanghi sono in grado di apportare benefici ambientali ed economici. Occorre – va da sé – dar vita a una gestione efficace lungo l’intera filiera, che privilegi il recupero di materia o in alternativa di energia, minimizzi lo smaltimento in discarica e affidi un ruolo residuale dello spandimento in agricoltura.
Osserviamo alcuni dati in grado di restituirci la situazione italiana. Nel 2018, l’attività di depurazione ha originato più di 3,1 milioni di tonnellate di fanghi, con andamento piuttosto stabile visti gli ultimi anni.
Secondo ISPRA, la Lombardia è la regione con il maggior quantitativo prodotto, oltre 445mila tonnellate (14,2% dei fanghi prodotti in Italia), seguita dall’Emilia-Romagna con 387mila tonnellate (12,4%). In termini pro capite, invece, la regione con il più alto quantitativo di fanghi prodotti è il Trentino-Alto Adige (63 kg/abitante equivalente).
Per quanto riguarda la gestione, complessivamente, le tonnellate di fanghi derivate dal trattamento delle acque reflue urbane gestite nel 2018 sono state poco più di 2,9 milioni. Come modalità di gestione, prevale lo smaltimento (56,3% del gestito) sul recupero (40%), a testimonianza di come vi siano ampi spazi per la valorizzazione dei fanghi di depurazione. Inoltre, vengono smaltiti ogni anno oltre 1,6 milioni di tonnellate di fanghi che potrebbero essere invece avviati a trattamenti per il recupero di materia o di energia.
A livello regionale, sempre la Lombardia è la regione dove vengono recuperate le maggiori quantità di fanghi (631mila tonnellate). Si tratta di un ammontare che supera quanto recuperato complessivamente da tutte le altre regioni (pari a 536mila tonnellate), per un totale di 1.167mila tonnellate.
Il Lazio, al contrario, con solo 16mila tonnellate recuperate, è la regione dove le quantità smaltite sono più elevate (280mila), seguito da Emilia-Romagna (219mila) e Toscana (216mila).
Il bilancio di gestione dei fanghi di depurazione chiude in negativo per circa 222mila tonnellate a livello italiano: i deficit gestionali del Sud (-246mila tonnellate) e del Centro (-137mila tonnellate) non vengono compensati dai surplus del Nord (81mila tonnellate) e delle due Isole maggiori.
A livello regionale, sono appena cinque le regioni il cui saldo gestionale è positivo: Lombardia (384mila tonnellate), Sicilia (74mila tonnellate), Marche (19mila tonnellate), Molise (10mila tonnellate) e Sardegna (6mila tonnellate). Il deficit maggiore si osserva in Campania, con oltre 122mila tonnellate non gestite. Seguono, nell’ordine, Veneto (-96mila tonnellate), Puglia (-81mila), Piemonte (-75mila), Lazio (-73mila), Toscana (-72mila) e, via via, tutte le altre regioni.
Ma attenzione. La differenza “prodotto e gestito” rappresenta un dato parziale per valutare l’adeguatezza dell’impiantistica regionale per la gestione dei fanghi. Gli elementi ulteriori da valutare sono insiti nell’evoluzione futura delle due variabili produzione e gestione. Cosa significa? Nel caso della produzione di fanghi, i quantitativi registrati in ciascuna regione sono strettamente correlati all’intensità delle attività di depurazione che, come detto in precedenza, presenta molte differenze fra una zona e l’altra. Per riportare un esempio, il deficit di gestione del Piemonte (-75mila tonnellate) assume una valenza diversa se si considera che in questa regione la percentuale di carichi civili trattati in impianti depurazione secondari o avanzati è pari al 70%, a fronte di una media italiana del 59%. Allo stesso modo, il surplus di gestione della Sicilia (74mila tonnellate) deve essere letto alla luce del fatto che meno di metà dei reflui viene adeguatamente depurato (44%), a segnalare che gli impianti esistenti sono appena sufficienti a gestire metà del reale fabbisogno.
Il giudizio complessivo non può poi prescindere dalla modalità di gestione di fanghi. Il Molise, ad esempio, chiude il bilancio in attivo di 10mila tonnellate, ma gestisce a smaltimento (discarica) pressoché la totalità dei fanghi prodotti (98%). Diversamente dal caso della Sardegna, che oltre a presentare un surplus di 6mila tonnellate, recupera il 79% dei fanghi gestiti in regione.
In sintesi, il problema dei deficit di trattamento (come spieghiamo in un nostro precedente Position Paper), è strettamente connesso alle carenze sulle attività di depurazione e alla disponibilità di impianti di recupero dei fanghi.
L’importanza di superare il deficit impiantistico
Un’analisi sui fabbisogni impiantistici di trattamento dei fanghi di depurazione che guardi oltre i prossimi 5-10 anni dovrebbe partire da due “cifre”:
- 1,9 milioni di tonnellate, come somma dei fanghi da depurazione gestiti a smaltimento (1,6 milioni di tonnellate) cui si aggiungono 222mila tonnellate di fanghi esportati all’estero.
- 29,9 milioni di abitanti equivalenti, ovvero il carico generato nei 939 agglomerati sui quali ancora pendono le procedure di infrazione per mancato collettamento e/o depurazione.
Se la prima cifra esprime una misura critica della capacità impiantistica mancante sul territorio nazionale, la seconda va inquadrata in una logica prospettica, quale fabbisogno di trattamento addizionale derivante dall’adeguamento e della costruzione delle fognature e dei depuratori di cui il nostro Paese attende di dotarsi da quasi 30 anni.
In sintesi, se il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR, la declinazione italiana del Recovery Fund) dovrà definire le risorse e gli interventi necessari al superamento del gap infrastrutturale sulla depurazione, allo stesso modo dovrà tenere in conto la necessità di sostenere anche gli impianti per la gestione dei fanghi decadenti dalla depurazione. In alternativa, il rischio è che l’aumento dei fanghi da trattare si traduca dapprima in pressioni crescenti sui costi di gestione e in tariffe più elevate per gli utenti del servizio idrico. E quindi in impatti ambientali di varia natura, in ragione della necessità di trasportare questi rifiuti verso Paesi esteri.
A livello nazionale, il fabbisogno residuo di recupero si quantifica in 3,2 milioni di tonnellate/anno, declinati a livello regionale secondo esigenze diverse fra loro.
Il Lazio risulta la regione con il più alto fabbisogno residuo (475mila tonnellate/anno), complice un’elevata produzione di fanghi (370mila tonnellate nel 2018), a cui si aggiunge un fabbisogno residuo consistente derivante dalla mancata depurazione delle acque reflue (121mila tonnellate/anno). Ciò a fronte di una bassa capacità impiantistica dedicata al recupero dei fanghi di depurazione (16mila tonnellate/anno).
In seconda posizione, si colloca la Campania (355mila tonnellate/anno), con un fabbisogno elevato dovuto al superamento delle procedure di infrazione (210mila tonnellate/anno), oltre che dall’assenza di capacità impiantistica dedicata al recupero dei fanghi di depurazione. Seguono Puglia (340mila tonnellate/anno), e Toscana (337mila tonnellate/anno), anch’esse fortemente penalizzate dai deficit impiantistici sul recupero dei fanghi.
Diversamente dalle altre regioni, la capacità impiantistica per il recupero già presente in Lombardia risulta pressoché sufficiente e coerente con la produzione a regime, in grado di accogliere l’incremento atteso di 239mila tonnellate/anno derivante dal completamento delle fognature e dei depuratori mancanti.
Esempi virtuosi dal territorio. Prove di bioeconomia
Oltre ai numeri, ciò che emerge chiaro è la necessità – urgente – di agire secondo logiche differenti. Una è quella della cosiddetta “bioeconomia”, quale incrocio virtuoso tra sostenibilità ambientale e circolarità economica, in cui la modalità di sfruttamento intelligente di risorse rinnovabili di origine biologica, è indirizzato verso logiche circolari.
Qualche soggetto già si è messo in moto. Per esempio, CAP Holding ha inaugurato un progetto di simbiosi industriale tra il termovalorizzatore e il depuratore (già dotato di due biodigestori) presenti nel comune di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano. L’iniziativa prevede la valorizzazione termica dei fanghi prodotti da tutti i depuratori (circa 40) gestiti del Gruppo CAP, generando calore per il teleriscaldamento (75%) e fosforo come fertilizzante (25%). A questo si aggiunge l’avvio a fine 2020 di un progetto pilota presso l’impianto di depurazione di Truccazzano, comune a nord est di Milano. Esso prevede l’installazione di un sistema di multifiltraggio per il recupero della cellulosa da impiegare nella realizzazione di compositi e biopolimeri nell’industria di plastica e bioplastica oltre che come materiale da costruzione (es. asfalto stradale), per arrivare fino alla produzione di carta o cartone riciclati.
Acea Ato2, gestore dell’Ambito Territoriale n.2 Lazio Centrale – Roma, ha sviluppato un piano di interventi per la valorizzazione dei fanghi nell’ottica dell’Economia Circolare, che trova la sua definizione nel Piano di Sostenibilità 2020-2024. Il piano coglie la duplice opportunità di ridurre il volume dei fanghi prodotti (-45% nel 2024 vs 2019) e valorizzare le matrici solide (materia e energia), attraverso interventi volti a trasformare i depuratori di maggiori dimensioni in hub per il trattamento centralizzato dei fanghi. Gli interventi includono il recupero delle sabbie tramite tecnologia soil washing, il rinnovo dei comparti di digestione anaerobica degli impianti di depurazione, il potenziamento delle linee fanghi con la realizzazione di essiccatori, l’installazione di impianti di ozonolisi e l’upgrading del biogas per la produzione di biometano da immettere nella rete.
Altri gestori, come Acquedotto Pugliese, stanno puntando sulla riduzione delle quantità di fango prodotto attraverso l’uso di serre di essiccamento che sfruttano l’energia solare e su progetti sperimentali come la produzione di gessi di defecazione partendo dal fango liquido, così come l’efficientamento delle digestioni anaerobiche con recupero energetico del gas prodotto.
In Veneto, nell’impianto di depurazione del Comune di Carbonera gestito dal gestore Alto Trevigiano Servizi (ATS), sono state implementate due tecnologie innovative nell’ambito del progetto Horizon 2020 Smart Plant: una per ridurre i consumi energetici della linea fanghi del depuratore recuperando fanghi arricchiti di fosforo (Short-Cut Enhanced Nutrients Abatement), una per produrre biologicamente polidrossialcanoati, ovvero i precursori di bioplastiche biodegradabile, dalla stessa cellulosa presente nelle acque reflue e attraverso processi fermentativi (Short-Cut Enhanced Phosphorus and PHA Recovery). Più recentemente, l’impianto di depurazione di Salvatronda (frazione del comune di Castelfranco Veneto) è stato individuato come hub per il trattamento dei fanghi gestiti dalla stessa ATS. La nuova piattaforma consentirà di ridurre il quantitativo complessivo di fanghi da smaltire con recupero di energia, grazie al biogas prodotto dalla digestione dei fanghi, e di materia, con il recupero di nutrienti quali azoto e fosforo.
CAFC, il gestore unico integrato della Provincia di Udine, ha predisposto un piano pluriennale per arrivare al trattamento centralizzato di tutti i fanghi di depurazione presso il sito di San Giorgio di Nogaro, ipotizzando costruzione di un hub per il trattamento finale dei fanghi attraverso attività di recupero energetico.
Altri, per esempio HERA, hanno optato per la valorizzazione dei “fanghi di alta qualità” come prodotto fertilizzante, quali il compost e i gessi di defecazione o avevano già avviato un percorso di valorizzazione energetica dei fanghi via digestione anaerobica con la produzione di biogas. Tra questi, SMAT Torino che ha sperimentato il primo impianto industriale europeo per la produzione di energia elettrica e termica da biogas con l’utilizzo di celle a combustibili ad ossidi solidi, oltre ad un biometanatore avanzato che trasforma il biogas prodotto da un impianto di trattamento (2 milioni di abitanti equivalenti) in biometano che viene immesso nella rete SNAM.
Sono solo alcuni esempi dei numerosi progetti di trattamento tecnologicamente avanzato dei fanghi di depurazione avviati sul territorio italiano, in particolare in quelle realtà locali ove sono presenti operatori industriali dotati di know-how e capacità di esecuzione. Molti altri sono in fase di progettazione, inseriti nella programmazione degli interventi per il nuovo periodo regolatorio 2020-2023, confermando un chiaro percorso di sviluppo secondo i principi della bioeconomia circolare.
In altre parole, i gestori industriali del Servizio idrico integrato si stanno attrezzando per rispondere a quello che fino a ieri era un problema di difficile soluzione: una risposta che si può definire integrata, dalla razionalizzazione dei sistemi di convogliamento dei reflui, alla creazione di veri e propri hub delle linee acque (depurazione) e fanghi (trattamento e recupero) al servizio dell’intero ambito territoriale di riferimento.
Un percorso di innovazione che conduce verso una maggiore centralizzazione delle reti di convogliamento delle acque reflue in linea con il quadro della nuova Tassonomia UE, che premia i progetti di trattamento delle acque reflue centralizzati.
L’intervento di ARERA
Ancora una volta, la regolazione di ARERA può divenire il propulsore utile a modificare lo status quo e spingere i gestori industriali a intraprendere un nuovo percorso di sviluppo. Due le tappe:
- La prima è quella avviata nel 2018 con l’introduzione della regolazione della qualità tecnica (RQTI), e la previsione di un obiettivo di riduzione dei fanghi smaltiti in discarica (macro-indicatore M5).
- La seconda si è concretizzata con l’approvazione del metodo tariffario per il periodo 2020-2023 (MTI3), nell’ambito del quale ARERA ha lavorato lungo due direttrici. Da una parte, ampliando la definizione del servizio di “depurazione”, includendo oltre alle attività per il trattamento dei fanghi in chiave di recupero energetico, già previste nel MTI (2014-2015), anche il recupero di materia. Dall’altra, riconoscendo ai gestori i costi incrementali causati dal trasporto e dallo smaltimento dei fanghi occorsi dal 2017, al netto di una franchigia, subordinati al verificarsi di precise condizionalità.
Queste condizioni hanno permesso di superare il vincolo dei precedenti metodi tariffari in cui i costi per lo smaltimento dei fanghi rientravano tra i costi operativi “endogeni” (OPEXend), ovvero tra gli oneri sotto il diretto controllo del gestore, il cui aumento, in eccesso rispetto al tasso di inflazione, non era “riconosciuto” in tariffa.
I risultati di questo più favorevole quadro regolatorio sono documentati dai progressi dell’indicatore M5 e ancora di più dal volume degli investimenti e degli interventi avviati dagli operatori del servizio idrico per ridurre lo smaltimento in discarica dei fanghi. Se nel 2018 meno di 1 euro/abitante era destinato a interventi di questa tipologia, nel 2020 si è saliti stabilmente al di sopra dei 2 euro pro capite, con una media programmata nel quadriennio del terzo periodo regolatorio (2020-2023) che si colloca a ridosso dei 3 euro/abitante. Se i programmi dovessero tradursi in consuntivi, nell’arco di pochi anni il volume degli investimenti destinati a infrastrutture per il trattamento dei fanghi crescerebbe di quasi 4 volte.
Tutto bene? Forse. Per un deficit che si colma, se ne ha un altro che si amplia. Infatti, ancora una volta il rischio è che si possa accentuare il Water Service Divide, in un Sud ancora carente di operatori industriali. E in cui le misure straordinarie che stanno lentamente portando a costruire le fognature e i depuratori mancanti, si ripercuotono sulla mancanza di uno sbocco per il trattamento dei fanghi.