Microinquinanti e microplastiche sono una fonte di inquinamento crescente a cui i tradizionali impianti di depurazione non sono oggi in grado di offrire risposte adeguate. Il servizio idrico integrato può svolgere un ruolo centrale nel garantire standard di sicurezza nell’uso potabile e di restituzione dell’acqua all’ambiente. Ma il costo degli interventi solleva questioni di sostenibilità della tariffa. Si impone dunque una riflessione più ampia e l’adozione di schemi di responsabilità estesa del produttore.

WWF, Greenpeace, Sea Shepard, National Geographic e molti altri ancora. Nel corso del 2019 sono state numerose le campagne di comunicazione focalizzate sui danni provocati da un uso incontrollato di plastica, specialmente per i prodotti monouso. Non che nei decenni precedenti la questione dell’inquinamento delle acque non fosse stata portata all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. Tuttavia, solamente in tempi recenti sembra che il messaggio di allarme sia finalmente “passato”, suscitando un interesse e una mobilitazione generalizzati ed entrando, per davvero, nelle agende dei Governi di tutto il mondo. Un interessamento che fa il paio con quello dedicato al climate change e al varo di effettive politiche di contrasto del fenomeno. 

Con l’Agenda 2030, programma di azione per un Pianeta più sostenibile, sottoscritto nel 2015 da oltre 190 Stati, le Nazioni Unite chiedono di dimezzare gli scarichi non depurati, aumentare il riciclaggio e il reimpiego sicuro dell’acqua, eliminare le discariche, riducendo l’inquinamento e il rilascio di sostanze chimiche nell’ambiente. Lo stesso e più recente Green Deal europeo indica tra le priorità la salvaguardia della biodiversità nei laghi e nei fiumi, e la riduzione dell’inquinamento da fertilizzanti agricoli, microplastiche e farmaci. Non solo. La Direttiva Quadro Acque (2000/60/CE) risalente a 20 anni fa, mirava al raggiungimento di un buono stato chimico ed ecologico dei corpi idrici entro il 2015. Un impegno vincolante che, tuttavia, non è stato raggiunto e sarà con ogni probabilità mancato anche nel 2027, considerando che non si sono registrati progressi sostanziali e sufficienti nello stato di salute delle acque.

Benché la presenza di un quadro legislativo favorevole e la volontà dei decisori di fare scelte ambientalmente sostenibili siano elementi utili per giungere a un cambiamento, essi da soli non sono sufficienti per ottenere un risultato davvero soddisfacente. Nello specifico è ingenuo pensare di contrastare l’inquinamento delle acque senza il coinvolgimento e l’impegno di industria e agricoltura, settori che producono o utilizzano sostanze in grado di impattare sulla qualità della risorsa idrica.

In un mondo fortemente connesso e, al tempo stesso, fragile, in cui le conseguenze delle decisioni del singolo hanno la capacità di gravare sul tutto bisogna guardare alle responsabilità individuali. Ciò significa chechi genera esternalità negative per l’ambiente deve essere chiamato a farsi carico degli impatti. Dunque, quello che chiamiamo “costo ambientale” diviene parte integrante nelle logiche produttive secondo il principio del “chi inquina paga”.

In questo senso il sistema degli EPR (acronimo anglosassone per Extended Producer Responsibility) sancisce la responsabilità estesa del produttore sugli effetti che la sua attività genera sull’ambiente.

Cosa comporta tutto ciò? I produttori devono assumersi una responsabilità significativa, di tipo finanziario o operativo, sia per la gestione degli impatti ambientali – ovvero dei costi necessari alla mitigazione degli stessi – sia per la fase post-consumo derivanti dalle loro attività.

Meccanismi di responsabilità estesa del produttore operano anche come incentivi per un cambiamento nei processi di produzione, con l’utilizzo di sostanze meno impattanti o che rendano i processi meno dannosi e, infine, i prodotti più facilmente riciclabili, riutilizzabili, o comunque con minori costi nella gestione del loro fine vita.

Già ben noti nell’ambito della gestione dei rifiuti (soprattutto nel campo degli imballaggi)[1], al contrario in quello della tutela delle acque e della gestione del servizio idrico sono pochissimo considerati e per nulla applicati. A oggi, i produttori sono sollevati dalla responsabilità su ciò che accade successivamente all’utilizzo delle sostanze che producono.

Questo vuol dire che, per esempio, un’industria farmaceutica o chimica non è “responsabile” dei danni che farmaci o pesticidi da lei realizzati provocano all’ambiente. O se si preferisce, il costo ambientale generato dai prodotti di queste aziende viene scaricato: o interamente sugli impianti di trattamento e depurazione, quando questi ultimi sono in grado di neutralizzare queste sostanze, o – peggio – sull’ambiente, quando le acque non vengono trattate o gli impianti non sono in grado di rimuovere gli inquinanti presenti.

È quasi superfluo sottolineare che questa mancata disciplina della fase post-consumo si pone in contrasto con le linee guida internazionali e Direttive europee, che suggeriscono sempre e comunque misure cautelative, per prevenire il danno agli ecosistemi, oltre che con gli standard di qualità ambientale a cui le acque devono conformarsi.

Acque inquinate. Il pericolo è (anche) nella presenza di nuove sostanze

L’inquinamento chimico delle acque è tra le principali questioni ambientali. Pesticidi, erbicidi, vernici, insetticidi, ma anche diossine, impermeabilizzanti, ritardanti di fiamma e metalli pesanti, quali nichel, piombo, cadmio e mercurio. E ancora mercurio, idrocarburi policiclici aromatici e polibrorumati difenile sono le sostanze maggiormente responsabili del cattivo stato chimico delle acque europee. In Italia, Ispra ha riscontrato la presenza di principi attivi e fitofarmaci nel 67% delle acque superficiali e nel 33% di quelle sotterranee, evidenziando il legame tra il loro utilizzo in agricoltura e la successiva dispersione all’interno dei corpi idrici sotterranei e superficiali, con la conseguente quanto inevitabile alterazione dell’equilibrio chimico e biologico.

La già citata Direttiva Quadro Acque della Ue considera il monitoraggio di alcune delle sostanze sopracitate come “prioritario”. Tuttavia, altre criticità sono legate non solo alla presenza nelle acque di contaminanti nuovi, nocivi per la salute dell’uomo e degli ecosistemi, ma anche alla loro costante crescita di numero. Negli ultimi anni, anche grazie all’evoluzione delle tecnologie per il monitoraggio, sono stati documentati oltre 2.700 nuovi composti presenti in commercio e, tuttavia, non ancora regolamentati. Infatti, delle oltre 131 milioni di sostanze chimiche censite, solo 387.150 sono in qualche modo soggette a qualche forma di regolamentazione del loro impiego.

Gli inquinanti di più difficile trattamento nelle acque possono essere raggruppati in due categorie: i microinquinanti e le microplastiche. Perché sono così pericolosi? Perché hanno caratteristiche di ecotossicità e capacità di bioaccumulo, con la possibilità di compromettere la salute degli ecosistemi e più in generale degli esseri viventi e perché una volta immessi nelle acque, presentano una forte resistenza alla degradazione negli ambienti naturali e marini. Infine – elemento non trascurabile – per trattare questo genere di inquinanti non sono sufficienti i normali processi di potabilizzazione e di depurazione.

Ambiente, salute e costi economici dellinquinamento

Le conseguenze sono facili da immaginare. Dato che la tutela della salute e la salvaguardia dell’ambiente rientrano tra gli obiettivi dell’azione di ogni gestore del servizio idrico, la maggiore complessità nelle operazioni di rimozione di queste sostanze negli impianti di potabilizzazione e depurazione o per la bonifica delle acque una volta contaminate si trasforma in un maggior costo.

Infatti, il ciclo idrico è per sua natura un sistema aperto che preleva l’acqua dall’ambiente per fornirla potabile a cittadini, imprese e agricoltori. I gestori, inoltre, raccolgono le acque di scarico in cui si accumulano le sostanze inquinanti e provvedono poi al trattamento ed alla depurazione per rendere le acque reflue compatibili con la re-immissione in natura. Essi, poi, sono chiamati a salvaguardare le fonti attraverso monitoraggi e analisi di laboratorio estesi ad un sempre maggiore numero di sostanze critiche, grazie all’adeguamento tecnologico degli impianti di potabilizzazione e a trattamenti avanzati di depurazione necessari ad abbattere i nuovi inquinanti.

La presenza di nuove sostanze inquinanti può richiedere trattamenti sia nella fase di adduzione e potabilizzazione sia nella fase di depurazione: il che – è naturale – si riflette sui costi che possono essere anche alti, in funzione della qualità delle acque da trattare.

In questo senso rientra in gioco il sistema dellEPR e della responsabilità dei produttori. Delegare in toto la mitigazione degli impatti ambientali alle attività dei gestori idrici vuol dire accettare che i costi della pressione antropica, agricola e industriale, si scarichino sulla bolletta idrica, e dunque in ultima analisi su noi cittadini-utenti.

Una scelta che con l’andare del tempo pone questioni di sostenibilità della tariffa idrica ma anche di equità. Purtroppo, siamo ancora fermi alla fase 0, anche dal punto di vista delle norme. Tuttavia, l’introduzione di schemi di responsabilità del produttore si pone quale risposta seria a queste questioni. Una politica che mira a disincentivare modelli di produzione e consumo potenzialmente inquinanti, in chiave di prevenzione, e che può generare le risorse necessarie a sostenere i costi di riduzione degli impatti negativi, così da proteggere l’ambiente.

Ovviamente responsabilizzare i produttori non significa deresponsabilizzare gli utilizzatori (consumatori, agricoltori, etc): questi ultimi dovrebbero essere informati sul corretto uso dei prodotti che acquistano, oltre che chiamati a sostenere i costi ambientali attraverso il prezzo dei beni usati.


[1] Si vedano in tal senso le direttive n. 849/2018/UE, n. 850/2018/UE, 851/2018/UE e 852/2018/UE che compongono il “Pacchetto Economia Circolare”