È necessario ricostruire i modelli di produzione e di consumo, abilitando il reddito come strumento in grado di generare sostenibilità. Il progresso tecnologico è chiamato a trovare il modo di coniugare il miglioramento del tenore di vita con la tutela dell’ambiente. Se i modelli di consumo saranno orientati all’ambiente anche la produzione vi si dovrà adeguare. È questo il senso più intimo della transizione ecologica.

Nel corso del tempo, il rapporto fra esseri umani e natura ha vissuto innumerevoli mutamenti, un continuo oscillare tra armonia e conflitto, senso di appartenenza e contrapposizione, scelta di assecondarne i ritmi e invece spinta a modificarne l’aspetto, fino a piegare l’ambiente circostante alle esigenze dell’uomo.

Tuttavia, l’emergenza attuale ci costringe a compiere un passo ulteriore e ripensare ai modelli di consumo e a quelli di produzione, quali due facce della stessa medaglia della nostra società, in modo tale che siano orientati alla sostenibilità e alla tutela dell’ambiente. I primi riguardano soprattutto “le persone”: quanta quota del loro reddito dedicare alla spesa, e in che modo spendere. Quelli di produzione, invece, chiamano in causa il “mondo industriale” al cui si chiede di continuare a ricercare la crescita, ma investendo in favore di processi produttivi maggiormente efficienti e circolari, così da tutelare sia il benessere dei cittadini (e il loro reddito) che salvaguardare l’ambiente. In questo senso, quindi, i rifiuti (e la loro gestione), si pongono come il risultato più tangibile e ingombrante dei nostri modelli di consumo e produzione.

Sviluppo economico, miglioramento della qualità della vita e tutela dell’ambiente: oggi si guarda alla transizione ecologica quale soluzione che sappia far convivere in maniera armonica tre elementi fino ad ora poco equilibrati. Una sfida che, per essere vinta, necessita di strumenti in grado di misurarne la relazione.  Tra di essi vi sono: la curva di Kuznets e il decoupling(disaccoppiamento). Se il primo strumento indaga i modelli di consumo, il secondo si occupa dei modelli di produzione o – come si diceva qualche riga sopra – due facce della stessa medaglia. Ma osserviamoli un po’ più da vicino.

1. La curva di Kuznets

La curva di Kuznets identifica il rapporto che intercorre fra il reddito pro capite e l’inquinamento prodotto da ciascun cittadino quale relazione tra reddito e diseguaglianza sociale: infatti, un’elevata produzione di rifiuti avviene necessariamente in seguito a un utilizzo intensivo, ovvero poco efficiente, delle risorse, a discapito di chi alle risorse non ha accesso o comunque delle generazioni future, chiamate a rimediare. L’ipotesi di questa teoria è che al crescere del reddito pro capite l’impatto ambientale cresca fino a segnare un picco, per poi decrescere superato un certo livello del reddito, in modo da disegnare una curva ad “U rovesciata”.

Utilizzando dati riferiti al reddito degli italiani, ai loro consumi e alla quantità di rifiuti prodotti a livello comunale, emergono interessanti indicazioni. Facciamo due conti.

Innanzitutto, al crescere del reddito pro capite aumentano i consumi: 1.000 euro di reddito addizionale per ciascuna famiglia si trasformano in circa 740 euro di consumo. Questa relazione è decrescente nel reddito ad indicare che i redditi più bassi consumano proporzionalmente una quota maggiore del proprio reddito; specularmente le classi più abbienti dispongono di un risparmio maggiore.

In seconda battuta è possibile osservare che al crescere dei consumi crescono anche i rifiuti prodotti: maggiori acquisti si traducono in una produzione maggiore di rifiuti in ambito domestico, a causa – ad esempio, degli imballaggi e di una sostituzione più frequente degli oggetti di uso quotidiano. In media 1000 euro di consumo pro capite si trasformano in circa 22 kg di rifiuto urbano. E ancora. Se al crescere del reddito cresce anche il consumo, e al crescere del consumo cresce la produzione di rifiuto, allora, per proprietà transitiva, al crescere del reddito aumenta anche la produzione di rifiuto pro capite. In media è quindi possibile asserire che per ogni 1.000 euro di reddito in più, si osservano circa 16 kg di rifiuto urbano.

Ricapitolando: se è vero che al crescere del reddito si osserva anche l’aumento della produzione di rifiutoè vero anche che questa crescita una volta arrivata al suo “picco” reddituale registra un’inversione di tendenza che la porta a essere decrescente. La relazione, robusta e significativa, permette di identificare il punto di massimo della “U” rovesciata in corrispondenza di un reddito pro capite di circa 23 mila euro, cui si associano 514 kg di rifiuto urbano pro capite prodotti.

Sono circa 7.350 i Comuni che si trovano nella fase “crescente” della curva (il 95% dei Comuni per cui sono disponibili misurazioni): in questi territori, al crescere del reddito di 1.000 euro il rifiuto prodotto aumenta di circa 18 kg. Viceversa, nei circa 370 comuni che si trovano nel tratto discendente della curva, ad ogni 1.000 euro di reddito pro capite aggiuntivo si associa una riduzione della produzione di rifiuto di 2 kg. Non si tratta di un eclatante virtuosismo, ma evidenzia un chiaro stacco in termini di comportamento.

Il tema è a questo punto duplice: se la fotografia che ci viene restituita dai dati racconta che oltre certi livelli di reddito la produzione di rifiuto si riduce, allora è evidente che ogni politica ambientalista dovrebbe essere in grado di coniugare la sostenibilità con il progresso dei redditi, prevenendone lo scivolamento, a cui si associa anche un peggioramento degli standard ambientali.

Tale relazione si osserva a livello di produzione di rifiuto urbano complessiva, come somma del rifiuto differenziato e indifferenziato. Ciò significa che non siamo in presenza di un mero effetto di composizione (tra “differenziato” e “residuo”), piuttosto di una reale riduzione del rifiuto prodotto, coerente con la gerarchia dei rifiuti, che vede proprio nella prevenzione e nella riduzione della produzione il comportamento virtuoso da ricercare.

Uno sguardo più approfondito permette di identificare un chiaro effetto territoriale, guidato probabilmente dalla distribuzione del reddito: le regioni settentrionali, caratterizzate da un livello del reddito superiore, si trovano nel tratto discendente della curva, ove si osserva la decrescita della produzione di rifiuto.

Un secondo effetto associato al territorio è rinvenibile nel rapporto tra produzione di rifiuto e dimensione dei centri abitati: i Comuni più piccoli esibiscono una produzione di rifiuto minore rispetto ai Comuni di dimensioni maggiori. Un’evidenza che con ogni probabilità si spiega con stili di consumo caratterizzati da un maggiore ricorso alla auto-produzione e/o a prodotti del territorio, con un minore utilizzo di imballaggi. Giova sottolineare che i centri di maggiori dimensioni sono anche caratterizzati, in media, da redditi più elevati, ai quali come già in precedenza mostrato si legano consumi e produzione di rifiuto più elevate, almeno sino ad una certa soglia.

2. Il decoupling o disaccoppiamento

Il disaccoppiamento (o decoupling) tra impatti ambientali e crescita economica ha invece un’accezione più ampia, che può essere tradotta in un modello di produzione nel quale il benessere e la qualità della vita delle persone possono crescere senza generare ulteriore pressione sull’ambiente.

Nel nostro caso, si parla di disaccoppiamento quando alla crescita economica, in termini di maggiore reddito e maggiori consumi, non corrisponde un aumento proporzionale della produzione di rifiuti da parte delle attività economiche: l’intensità della produzione di rifiuto per unità di Pil è il termometro della sostenibilità del modello di produzione e di consumo. Il concetto di disaccoppiamento diventa particolarmente rilevante nella prospettiva della Transizione ecologica. Esso, infatti, si realizza nell’osservare se e in quale misura pratiche industriali più avanzate possano contribuire a creare ricchezza e insieme impatti ambientali minori. Vista da questa prospettiva la Transizione ecologica si realizza nel promuovere tecniche produttive via via più efficienti, in grado di mantenere inalterata la produzione e la creazione di reddito, e coniugarle con un uso più parsimonioso delle risorse, attento ai loro ritmi di rigenerazione. Lo sganciamento della produzione di rifiuti dalla crescita del PIL dovrebbe essere il primo segnale dell’avvio di questo percorso.

Dopo aver esplorato le evidenze circa il legame tra la produzione di rifiuto e il reddito – e quindi la relazione a livello micro, possiamo ora volgere lo sguardo ad un orizzonte macro, studiando il ruolo giocato dall’intensità dell’attività economica e dalla relazione tra produzione di ricchezza e di rifiuti, e dunque il ruolo giocato dalle imprese.

Il valore aggiunto – la somma dei redditi distribuiti – è una variabile del reddito prodotto nel Paese. Ciò che naturalmente saremmo portati a pensare è che ad una maggiore intensità dell’attività economica (e quindi, ad un maggiore flusso di reddito creato) corrisponda anche una maggiore quantità di rifiuto prodotto. Per l’indagine ci si è serviti dei rifiuti speciali, derivanti da attività economiche, agricole, industriali e commerciali.

Il disaccoppiamento permetterebbe di preservare i livelli di benessere raggiunti riducendo il nostro impatto ambientale, minimizzando il trade-off tra economia e ambiente. Raggiungere questo obiettivo consentirebbe di mettere nel cassetto gli scenari di decrescita come panacea ad ogni male, e abbracciare con maggiore convinzione un paradigma di sviluppo vocato alla tutela dell’ambiente.

I fattori in gioco sono molteplici: il tempo, lo sviluppo tecnologico, la produzione di nuovi materiali, sino a nuovi modelli di gestione e tariffazione del rifiuto in grado di spingere le imprese a comportamenti virtuosi.

La relazione che lega la produzione di rifiuti speciali al valore aggiunto cambia inclinazione anno dopo anno, in maniera quasi aleatoria: ciò significa che non è in atto una tendenza a diminuire la produzione di rifiuti, pur essendo cresciuti i redditi prodotti.

Lo stesso fenomeno può essere rappresentato sotto una diversa prospettiva. Per ciascun anno, abbiamo infatti studiato delle semplici interpolazioni lineari: il volume dei rifiuti speciali (variabile dipendente) è stato messo in relazione con il valore aggiunto (variabile indipendente). In caso di disaccoppiamento, il coefficiente del valore aggiunto dovrebbe diminuirebbe nel corso del tempo: cosa che non si osserva. La relazione che sussiste tra valore aggiunto e rifiuti speciali è purtroppo ancora di proporzionalità diretta: all’aumentare del valore aggiunto, aumentano anche i rifiuti speciali prodotti.

Queste semplici analisi grafiche consentono di affermare che non siamo ancora riusciti a realizzare il disaccoppiamento e cioè che la produzione di rifiuti rimane saldamente “ancorata” all’andamento del PIL, peraltro con una intensità che non si riduce nel tempo.

3. Puntare sulla Transizione ecologica

I 209 miliardi in arrivo del Next Generation EU hanno smosso il quadro politico e soprattutto economico, principalmente dove i due elementi sono legati. La Presidenza del Consiglio ha preso un impegno dinanzi all’Europa, tanto che al nuovo ministero è stata effettivamente trasferita la direzione generale per l’approvvigionamento, l’efficienza e la competitività energetica e la direzione per le infrastrutture e la sicurezza dei sistemi energetici e geominerari.

Il messaggio che il nuovo ministro sembra portare è che “la tecnica è la risposta”: un messaggio condivisibile, in un Paese che investe troppo poco su ricerca e innovazione e che sta pagando dazio non solo in termini ambientali, ma anche di competitività. Tuttavia, si tratta di un messaggio che dovrebbe tenere conto del fatto che la tecnica è un mezzo e non un fine, ed opera in un contesto complesso, come quello di un sistema-Paese.

È forse troppo semplicistico, seppure tutt’altro che scontato, affidare solo alla tecnica il ruolo di ridurre l’impronta ecologica, rischiando così di deresponsabilizzare la collettività, intesa come cittadini, imprese e istituzioni. Anche la migliore tecnologia non è neutrale: la necessità di cambiare nel più breve tempo possibile è sopravvenuta anche per le mancate risposte offerte dalla tecnica, frenata dai mancati investimenti nella ricerca e nello sviluppo e/o dal business as usual. Non si è saputo dare una guida sostenibile, un fine giusto ed equo, anche per le generazioni future. Se stiamo vivendo l’attuale emergenza ambientale non è solo perché non abbiamo finora avuto strumenti adeguati, ma perché non li abbiamo usati o li abbiamo usati male, senza responsabilità. Il cambiamento di paradigma richiede soprattutto una diversa idea di futuro e non solo una maggiore attenzione alle tecniche: occorre accettare che il cambiamento parta dalla testa, e non solo dalle braccia.

È venuto il tempo di ricercare innanzitutto la sostenibilità come motore per la crescita economica. Una nuova società fondata sul riconoscere la sostenibilità come la dimensione in grado di generare reddito e benessere per tutti, e di cui la tecnica possa essere al servizio. Da un modello lineare, ancora oggi mainstream, a un modello circolare, fatto di riprogettazione, osmosi produttiva, sinergie, reti, buone pratiche, etica, competenze, fantasia.

La scienza economica oggi sembra non essere in grado di stimare il vero tasso di sconto per attualizzare i costi futuri del riscaldamento globale: diverse scuole di pensiero arrivano a conclusioni significativamente diverse. Di nuovo, quindi, emerge con prepotenza la necessità di una razionalità diversa rispetto a quella puramente economica che faccia leva sull’etica e sul senso di giustizia.

È questo il significato più intimo della Transizione ecologica, nel quale le istituzioni sono chiamate a indicare la via e a coordinare l’impegno collettivo di cittadini e imprese.