Vi sono dei “NO” motivati, in esito ad una informata riflessione, e “NO” figli dell’appartenenza ad una identità culturale che va diffondendosi nel Paese. Come aiutare i cittadini a ponderare costi e benefici delle opere e degli impianti? Il dibattito pubblico, istituto mutuato dall’ordinamento giuridico francese e recentemente recepito in Italia, può essere una risposta.

Not in my back yard!” o se si vuole “Non nel mio cortile!”. Dietro l’acronimo anglosassone di NIMBY, c’è un fenomeno complesso che può raccontare molto sull’evoluzione delle società democratiche occidentali in questi ultimi trent’anni, sulle tensioni che le hanno attraversate e sui cambiamenti delle opinioni pubbliche e dei singoli individui.

Consapevolezza dei propri diritti di cittadino contro l’ingerenza dello Stato? Difesa del proprio territorio da abusi e sfruttamenti? Semplice chiusura egoistica, emotiva e retrograda contro ogni sviluppo e progresso? Preoccupazione legittima per la propria salute e per la qualità dell’ambiente circostante? O paura irrazionale e ingiustificata nei riguardi di complotti da parte di “poteri forti” non meglio identificati? Il NIMBY è questo e molto altro ancora: un coacervo di contraddizioni e contrapposizioni. Alcuni affiancano al NIMBY la parola “effetto”, insistendo sulle conseguenze che un atteggiamento simile può portare, altri preferiscono metterci il termine “sindrome”, scegliendo di dargli un’accezione patologica.

Senza dubbio, caratteristica saliente del NIMBY è il “Not”. Un “NO” che il più della volte è diventato lo strumento per altri tipi di rivendicazione (politica, partitica, identitaria, culturale) che nello specifico non avevano stretti legami con la ragione per la quale quella negazione veniva espressa: la realizzazione di una determinata opera infrastrutturale. Grande o piccola che fosse. 

Tra le sfide che le democrazie – non più divise secondo classi sociali o ideologia – si sono trovate ad affrontare dagli anni Novanta del Novecento vi è quella della costante tensione tra spinte individualiste e attenzione al benessere collettivo. A questo si somma la tendenza tipicamente umana alla conservazione di quanto esiste, considerando la sfiducia che nasce anche solo dall’immaginare un cambiamento nella propria condizione.

Si è, dunque, di fronte a bias cognitivi, cioè a fenomeni di deviazione o distorsione nella lettura e interpretazione della realtà (https://www.linkedin.com/pulse/servizi-pubblici-e-comunicazione-ai-cittadini-spunti-di-ref-ricerche/).  Questa diffusa tendenza al NIMBY, a preferire il “no” e a propendere per il rifiuto o la chiusura, ha sfumature e origini diverse. Tutte hanno in comune l’avversione al cambiamento; alcune si radicalizzano e si esasperano fino a condurre alla completa immobilità (“meglio non fare nulla”) o all’opposizione nei confronti di ogni progresso tecnologico, ambientale, sociale.  

Nel NIMBY confluiscono e dal NIMBY partono – modificati – elementi che hanno a che vedere anche con la costruzione dei tratti identitari di individui e popoli. Per esempio, il mantenimento dell’esistente è un valore piuttosto radicato e coltivato nella cultura italiana, specialmente per un popolo – il nostro – che non esita a presentarsi o rappresentarsi retoricamente come innamorato delle proprie radici, delle proprie tradizioni e della propria storia, spesso con una specificità territoriale e campanilistica.

L’opposizione al nuovo, al moderno, al cambiamento (per l’appunto), si trasforma in un elemento attraverso il quale identificarsi come individuo e come parte di una comunità. Grazie ad esso, infatti, è possibile, al contempo, riconoscere i propri “simili” e “amici” a cui unirsi e individuare i “diversi” e “nemici” contro cui opporsi. Un elemento fermo e stabile sul quale costruire la propria identità (sociale sicuramente, ma anche privata) e una chiave di lettura immediata e a buon mercato della realtà. In modo che il processo decisionale divenga il più possibile facilitato e semplificato.

Il Dibattito Pubblico come strumento di legge

In un Paese come l’Italia, è necessario sia dare nuovo impulso allo sviluppo delle grandi infrastrutture nate negli anni del boom economico e ormai vetuste, sia favorire la realizzazione di infrastrutture medio-piccole, come quelle necessarie ai servizi pubblici locali, laddove la presenza di impianti sul territorio è condizione necessaria per rispondere ai bisogni.

Occasione privilegiata per ragionare sulle proprie convinzioni, ascoltando anche quelle degli altri, è senza dubbio il dibattito: è in questo momento che è possibile sciogliere i nodi che stanno alla base dell’Identità del NO, così da costruire un nuovo pensiero fondato su fatti oggettivi e non influenzato da distorsioni comportamentali. La delicata questione della TAV in val di Susa è un esempio di quanto sia importante un confronto libero da posizioni preconcette.

Per far sì che un tale momento sia effettivamente occasione di cambiamento, è necessario garantire la partecipazione al dibattito, e cioè la possibilità che ciascuno esprima le proprie opinioni e le proprie posizioni, assumendosi la responsabilità di quanto viene detto e presentato, come ad esempio studi basati su solida evidenza.

Un passo in questa direzione è rappresentato dall’introduzione di uno strumento legislativo quale il Dibattito Pubblico[1]. Mutuato dall’esperienza francese degli anni Novanta e introdotto nel panorama normativo italiano con il DPCM 76/2018, ha codificato il sistema di regole e procedure che informano un dialogo ed un confronto fra stakeholder coinvolti dalla realizzazione di una grande opera o infrastruttura (cittadini, amministrazioni pubbliche, imprese, eccetera), individuando i passaggi di un dialogo costruttivo che mira a prevenire le istanze, i dubbi e le contrapposizioni.

Esso si pone, essenzialmente, come uno spazio di confronto normato da regole tra i vari stakeholder interessati dalla realizzazione di un’opera pubblica. I cittadini, chiamati ad informarsi e ad esprimere le proprie opinioni, possono avanzare proposte e progetti, arrivando a co-progettare l’opera per renderla aderente alle esigenze dei territori. Specularmente, è richiesto ai proponenti del progetto di presentare soluzioni aperte e flessibili, con linguaggi chiari e comprensibili, portando anche evidenze scientifiche ove necessario: ci deve essere quindi la volontà di esplorare nuove soluzioni progettuali nate dal confronto con la comunità locale.

È questo un percorso che chiama alla responsabilità personale e collettiva tutte le parti coinvolte. Da una parte, i proponenti del progetto devono saper testimoniare la bontà dello stesso e di come esso sia progettato e realizzato al fine di generare benefici per i territori, rispondendo a bisogni della cittadinanza, tutelando sempre l’ambiente e la qualità della vita. Allo stesso modo, anche ai cittadini viene chiesto di rispondere, razionalizzando i motivi di opposizione: non è più sufficiente il “NO” come manifestazione di un’identità o come alibi, è necessario circostanziare e motivare le proprie risposte, cosicché si possano esplorare nuove strade e soluzioni in grado di soddisfare i bisogni di tutti.

La responsabilità a cui sono chiamate le istituzioni e i cittadini deve necessariamente essere sostenuta dalla credibilità e dalla fiducia. Non è infatti sufficiente pensare che il dibattito sia accettato e condiviso se non si reputa credibile l’altra parte sia nelle parole che nei fatti. Ciò può avvenire se i soggetti sono stati capaci di meritare fiducia in passato, e cioè se si sono dimostrati vicini alle necessità degli altri[2].

Il dibattito pubblico, visto da questa prospettiva, è uno strumento di democrazia diretta, poiché coinvolge i cittadini nel processo di definizione e di realizzazioni di opere pubbliche di interesse nazionale. Non chiede solo di approvare o di negare la realizzazione del progetto, ma chiama in causa la cittadinanza, identificando criticità sfuggite all’occhio del proponente e studiando nuove soluzioni.

È uno strumento di partecipazione che necessita di trasparenza perché possa funzionare. È solo la conoscenza profonda dell’opera, dei costi e dei benefici annessi, che permette l’emergere di osservazioni costruttive e la progettazione di valide alternative per risolvere eventuali snodi critici.  

Con il Dibattito Pubblico si intende sostenere un cambio di paradigma in cui la partecipazione dei cittadini è preventiva, sostenuta, attiva e ricercata, condizione necessaria alla realizzazione delle opere: il desiderio è quello di favorire un percorso nel quale, grazie al coinvolgimento, l’atteggiamento dei cittadini da “difensivo” possa tradursi in fattivo e “cooperativo”. Una legge ambiziosa perché inverte un processo, ponendo al centro i soggetti più deboli e realizzando così il principio di sussidiarietà.

Più confronto e dibattito per superare i “NO”

Non solo. L’esperienza del Dibattito Pubblico dovrebbe aiutare anche a identificare alcuni insegnamenti o linee guida utili a superare una parte dei 317 NIMBY[3] ad oggi documentati nei confronti di piccole e grandi opere sul territorio nazionale.

Basti pensare alle infrastrutture legati ai servizi idrico e dei rifiuti. Se è, infatti, vero che le soglie indicate dal DPCM escludono dal Dibattito Pubblico la grande maggioranza degli interventi nei servizi pubblici locali, tuttavia queste opere spesso presentano un livello di complessità non dissimile da quello delle grandi infrastrutture.

Nel caso del ciclo dei rifiuti, se da un lato per alcune tipologie il raggiungimento di una taglia minima degli impianti è necessaria ad assicurare costi di gestione efficienti ed economie di scala, dall’altro per altre tipologie di rifiuto una diffusione capillare di impianti può essere raccomandabile per assicurare l’autosufficienza e/oper contenere la movimentazione territoriale dei rifiuti. Si rende dunque necessario operare scelte strategiche di taglia e localizzazione degli impianti rispetto alle quali i territori non possono non essere attivamente coinvolti.

Una strada per sostenere un maggiore coinvolgimento del territorio nelle scelte potrebbe essere quella di assicurare percorsi autorizzativi più spediti e snelli nel caso di opere di piccola e media taglia per le quali siano state esperite positivamente iniziative di partecipazione. Un incentivo rivolto agli operatori desiderosi di tessere relazioni con i propri territori, snellendo i passaggi e le approvazioni da parte degli organi di rappresentanza.

Riteniamo anche rilevante che un’eventuale evoluzione della norma possa prevedere percorsi specificatamente dedicati ai servizi pubblici locali: essi infatti riguardano temi ed argomenti che fanno parte della vita quotidiana delle persone, con scelte operative e gestionali che hanno un impatto diretto sulla vita dei cittadini. Il pensare strumenti e pratiche privilegiate di dibattito pubblico per questo tipo di servizi può essere percepito come una occasione per costruire relazioni di fiducia e di dialogo con le istituzioni e con gli operatori.

È auspicabile che un’eventuale procedura di dibattito pubblico declinata sul mondo dei servizi pubblici locali venga avviata già nelle fasi preliminari di definizione dei progetti, così che gli esiti possano incidere sugli stessi, per migliorarli, qualora la voce dei territori lo dovesse richiedere.

Sarebbe inoltre utile ridefinire il bacino territoriale delle comunità coinvolte o chiamate ad esprimersi. È infatti chiaro che il territorio interessato da una certa opera, non coincide necessariamente con il Comune o la località che la ospita. Nel caso dei servizi pubblici locali occorre spostarsi su logiche di bacino territoriale ottimale o ancora di area vasta. Deve essere previsto, dunque, che siano queste ultime le declinazioni territoriali nelle quali matura e si realizza il dibattito.

Si suggerisce anche di rendere tale dinamica, di ascolto e di partecipazione informata alle scelte strategiche, quasi continuativa e non “una-tantum”, proprio perché i servizi pubblici locali riguardano la quotidianità dei cittadini. Avere a disposizione uno spazio in cui i soggetti coinvolti possono dialogare migliorando continuamente il servizio è una nuova strada da esplorare.

[1] Si vedano: S.Bosetti, V.Pucci (a cura di), Il Dibattito Pubblico. Confrontarsi e decidere sulle Grandi Opere. Il Dibattito Pubblico introdotto dal DPCM 76/2018, Piacenza, La Tribuna (2018), Il dibattito pubblico. La partecipazione diretta dei cittadini alle decisioni sulle grandi opere, Paper Foim n.2 (2019) eDecidere sulle Grandi Opere. Il DPCM 76/2018 e il Dibattito Pubblico, Paper Foim n.3 (2019)

[2] Per un approfondimento si veda il Contributo n. 149 “Acqua, rifiuti e bias cognitivi: l’informazione ai tempi delle fake-news e del covid-19”, Laboratorio REF Ricerche, aprile 2020.