Dove la produzione industriale si articola lungo direttrici distrettuali, anche la gestione dei rifiuti deve seguire la stessa logica. I distretti rappresentano l’ecosistema ideale per politiche di prevenzione, razionalizzazione e recupero dei rifiuti. La circolarità dell’economia passa dalla capacità di incanalare gli scarti in circuiti di valorizzazione e di gestione controllata. La simbiosi industriale è allora la risposta.

Il rifiuto come parte integrante del ciclo produttivo. Un concetto che immaginiamo ormai assodato e interiorizzato in un’economia che vorrebbe – o dovrebbe – tendere alla circolarità, all’efficienza e dunque a una gestione integrata di ogni fase. E non solo dalle aziende che sanno di non potersi più semplicemente “disfare di qualcosa” quale scarto del loro lavoro, ma anche dalle istituzioni, locali e nazionali, che sono chiamate a gestire, organizzare e regolare questo sistema. Eppure, a livello italiano, ciò che sembra scontato non lo è affatto, considerando l’evidente carenza di impianti adeguati a smaltire e valorizzare i rifiuti industriali. Un deficit infrastrutturale – per numero e tecnologie – doppiamente gravoso; primo, per le imprese italiane che, costrette a pagare più denaro, perdono inevitabilmente in competitività. Secondo, per i cittadini e le comunità, che devono ciclicamente affrontare emergenze rifiuti e, terzo ma non ultimo per importanza, per tutto il sistema Italia, che ancora una volta ne esce indebolito.

Partiamo da una recente indagine promossa da Confindustria Veneto e realizzata da Fondazione Nord Est. Il 60% dei quasi 500 imprenditori intervistati ammette difficoltà nel ritiro e nello smaltimento dei suoi rifiuti industriali. Non solo. Se l’80% dice di aver registrato costi più alti, il 26% denuncia un aumento medio superiore al 25%. Di chi parliamo? Di aziende operanti in settori strategici per il sistema produttivo (in questo caso veneto), ma che più in generale fanno parte di quello straordinario sistema che è la manifattura italiana, con le sue declinazioni, dal meccanico-metallurgico al chimico/farmaceutico, dalla gomma-plastica al vetro-ceramica, per arrivare al legno-arredo, al tessile-calzaturiero e, infine, al cartario. E la manifattura italiana insieme al settore delle costruzioni produce oltre il 60% del totale dei rifiuti speciali. Sempre guardando al totale dei rifiuti speciali, il 27% (circa 39 milioni di tonnellate) può trovare spazio praticamente solo in discarica o nell’incenerimento (quelli contraddistinti dal Codice EER 19).

In assenza di un piano infrastrutturale adatto alla necessità di smaltimento, non vi sono molte alternative. Per i rifiuti non riciclabili le destinazioni sono due: la discarica o il caos. In questo clima non sorprende il fiorire di attività illegali legate alle cosiddette ecomafie, come sta accadendo con i capannoni stipati di scarti dati alle fiamme.

termovalorizzatori italiani, pochi per numero e tecnologicamente arretrati, sono un esempio di questo sistema inefficiente, per nulla sostenibile e, in molti casi, irresponsabile. Oggi i 39 impianti operativi nel nostro Paese impiegano in linea di massima la tecnologia a griglia, che impedisce che si possano smaltire anche rifiuti speciali pericolosi; un problema che alla fine ricade tutto sulle spalle delle aziende. Per essere più precisi, ciò significa che in Italia sono attive solo 5 linee operative su 3 impianti che impiegano una tecnologia a tamburo rotante, cioè capace di accogliere anche i pericolosi. Tradotto in numeri vuol dire che siamo in grado di processare al massimo 300 mila tonnellate/anno di rifiuti pericolosi, mentre il resto deve andare necessariamente all’estero (Francia, Germania, Paesi Bassi o Spagna).

La soluzione più lineare? Costruire più impianti per venire incontro alle esigenze della produzione e dei singoli territori. Una risposta solo in apparenza “semplice” che si è scontrata con due fattori, purtroppo determinanti. Il primo è la radicale opposizione di parte dell’opinione pubblica alla costruzione di impianti (spesso sotto forma di sindrome Nimby). Il secondo è la presenza di una classe politica, sia a livello locale che nazionale, più propensa a ragionare secondo logiche opportunistiche o se si vuole elettoralistiche e molto meno secondo piani strategici pensati per il bene comune e lo sviluppo futuro. Quando poi il primo e il secondo fattore convergono e si saldano, non vi è più spazio per alcun avanzamento. Siamo di fronte, dunque, all’ennesima prova (ma ce n’era bisogno?) non solo dell’assenza del senso di responsabilità, ma anche di coesione e fiducia nel legame esistente tra noi cittadini e chi ci governa, con i secondi che per non incorrere ulteriori momenti di conflitto hanno finora preferito o cedere alle proteste o addirittura fare proprie le istanze di dissenso contro la costruzione di impianti promosse da associazioni o comitati del territorio. In questo modo, eludendo i propri obblighi, gli amministratori pubblici hanno evitato di dover fare scelte impopolari e, magari, scontarne le conseguenze al momento delle elezioni. A questo si aggiunge un’altra via utilizzata per accomodare il malcontento, ovvero quella di approvare regolamentazioni talmente restrittive sulla costruzione degli impianti che è lampante come l’unico scopo sia il bloccarne la realizzazione. Con il risultato di ingolfare i tribunali, soprattutto amministrativi, di esposti e ricorsi che allungano i tempi fino alle calende greche. Ogni iniziativa economica si trasforma in un percorso a ostacoli senza scampo, che lascia sul campo centinaia di migliaia di tonnellate di scarti, inevitabilmente destinate a percorrere migliaia di chilometri per trovare spazio. 

Una spirale perversa che impedisce un vero ciclo integrato e industrializzato dei rifiuti, in contrasto con gli indirizzi dell’Ue. 

Inevitabile, in tutto questo, un aumento dei costi per le aziende che si trovano penalizzate per questa carenza infrastrutturale perché costrette a sborsare cifre anche due o tre volte superiori a quelle di qualche anno prima. Un esempio riguarda i cosiddetti “fanghi” prodotti dai vari processi di trattamento: nel giro di breve tempo si è passati da un costo di 80 euro a tonnellata a oltre 200 euro. Benché più modesto, si segnala un aumento del 5-10% del costo per lo smaltimento di quei rifiuti speciali assimilati agli urbani (e quindi coperti dalla TARI).

In ogni caso, come abbiamo evidenziato in una nostra recente ricerca (Contributo n. 143), per i grossi player l’aumento dei costi può essere quantificato in almeno il 50% rispetto al passato.

Quali elementi rendono un determinato territorio attrattivo per le imprese? Le risposte, generalmente, indicano o la presenza di infrastrutture per la mobilità e i trasporti (autostrade, porti, snodi ferrovieri etc. ) o i cosiddetti servizi a rete (energia elettrica, gas e acqua). Molto meno spesso si cita la presenza di impianti per lo smaltimento dei rifiuti; eppure la mappa dell’Istat sugli insediamenti produttivi coincide alla perfezione con la mappa dell’Ispra sull’impiantistica a servizio dei rifiuti. Ne è una prova il Meridione d’Italia, in cui la totale mancanza di risposte in tal senso porta a una fuga degli investimenti e a una conseguente desertificazione produttiva.

C’è di più: se, da un lato, la presenza di impianti di gestione/trattamento è indice di un tessuto produttivo più radicato, è vero pure il contrario, cioè che la possibilità di gestione efficiente degli scarti produce esternalità positive che sono da incentivo all’insediamento di nuove aziende, quindi di investimenti.

La condizione critica dei distretti produttivi è il segno inequivocabile di una situazione che richiede interventi urgenti. Mancanza di impianti, confusione normativa – soprattutto sui processi di end of waste e in genere autorizzativi – e le dinamiche internazionali che hanno visto la chiusura dei mercati asiatici (fino a un recente passato destinatari a pagamento dei nostri rifiuti), stanno favorendo solo il trasporto e i fornitori di carburanti fossili, i broker e in ultima analisi il malaffare.

E non solo. Questi fattori stanno penalizzando fortemente la competitività delle aziende sui mercati internazionali e nuocendo al Made in Italy, tanto spesso promosso e difeso a parole e quanto poco con i fatti, specialmente dalla classe dirigente del nostro Paese. 

In precedenza, abbiamo parlato di importanti rincari, addirittura di due o tre volte in poco tempo. Per capire l’impatto sui singoli comparti facciamo l’esempio di distretti produttivi in Emilia-Romagna e in Toscana.

In Emilia Romagna, gli aumenti dei costi oscillano per i rifiuti speciali non pericolosi dai 150 euro/ton del 2017 ai 200-220 del 2019; per i pericolosi, invece, si è trattato della triplicazione dei costi, raggiungendo vette di oltre 600 euro/ton.

Gli operatori emiliano-romagnoli sottolineano che inizialmente le aziende hanno fatto ricorso al deposito temporaneo, con i relativi rischi di incappare in sanzioni amministrative e penali, ma questo a un certo punto non è stato più sufficiente. La Regione è intervenuta a fine 2018 autorizzando un’estensione del 3% per gli stoccaggi degli operatori.Un modo per prendere tempo.Il territorio che ha sofferto di più è quello di Reggio Emilia e del basso modenese, cioè il distretto del tessile di Carpi e quello biomedicale di Mirandola.

Rischio collasso, a breve termine, anche in Toscana, che secondo i vertici delle principali società di gestione dei rifiuti sarà costretta ad ampliare le discariche già esistenti se non vuole portare fuori dai confini regionali gli scarti e rinunciare alla sua quasi autosufficienza.

Per quanto riguarda invece i rifiuti speciali, il pacchetto base medio di smaltimento è passato da 70 a 120 euro a tonnellata, un aumento di oltre il 70%. Secondo la rappresentanza delle imprese locali sono particolarmente a rischio importanti distretti dell’area Lucca-Pistoia-Prato, come il cartario e il tessile: complessivamente si producono circa 330.000 tonnellate l’anno di rifiuti speciali, tra scarti di produzione e fanghi di depurazione. Le stime sugli aumenti di costi per i conferimenti agli impianti delle singole filiere sono notevoli: per esempio, risultano triplicati negli ultimi due anni i costi per le cartiere. Con impianti di termovalorizzazione in chiusura o con l’iter autorizzatorio bloccato e progetti di ampliamento di discariche anch’essi bloccati, il futuro per i distretti economici toscani appare poco roseo. Alla fine dei conti rimangono per terra centinaia di migliaia di tonnellate di frazioni indifferenziate che devono andare fuori Regione o addirittura all’estero, mancando impianti di valorizzazione energetica e persino discariche a disposizione. Come emerge dai calcoli degli operatori economici ascoltati, complessivamente esiste un fabbisogno non soddisfatto di almeno: 75mila tonnellate nel tessile, 250mila tonnellate per le cartiere, 100mila tonnellate per le concerie, oltre a rifiuti misti vari.

La gestione corretta dei rifiuti significa gestione corretta delle risorse e innovazione dei processi produttivi, prima ancora che dei modelli di consumo, anch’essi di importanza strategica. È fuor di dubbio che lo stato di salute dell’economia italiana passa dalla piccola e media impresa e dal funzionamento dei modelli distrettuali. Non a caso, secondo le stime della Fondazione per lo sviluppo sostenibile circa l’80% dell’impatto ambientale del settore industriale in Italia sarebbe da ascrivere alle attività delle PMI.

Cosa fare dunque? Close the loop, “chiudere il cerchio” per usare il titolo del piano rifiuti proposto dalla Commissione europea. E una strategia che conduce a una società del riciclo[1] è inevitabile che passi da un adeguato numero di impianti destinati al trattamento e alla valorizzazione dei rifiuti e da rinnovate sinergie industriali e buone policy.

“Chiudere il cerchio” significa pianificare e costruire, dopo una attenta lettura delle esigenze di ciascun territorio (di per sé unico), un ciclo integrato e ben governato dei rifiuti. I benefici saranno di natura ambientale ed economica, secondo una distinzione tra i due termini che man mano andrà ad assottigliarsi fino a scomparire. 

Perché in un’economia che vogliamo essere davvero “circolare” la gestione dei rifiuti deve rivestire un ruolo prioritario, strategico, puntando sia alla valorizzazione di materia che di energia. Per essere ancora più chiari: nel rispetto della gerarchia che vede la prima sempre da preferire, produrre energia da scarti alternativamente destinati alle discariche è un pezzo imprescindibile di questo modello economico e della lotta al global warming, come dimostrano gli innumerevoli studi scientifici improntati al life cycle assessment. Quindi, se è fondamentale integrare il ciclo dei rifiuti con i cicli produttivi (valorizzando materia ed energia), è allo stesso tempo fondamentale integrare il tema dei rifiuti con quello della produzione energetica, sempre all’interno di una Strategia nazionale. Serve uscire definitivamente da una logica settoriale per abbracciare una logica di rete e di sistema.

Fino a quando il tema della gestione dei rifiuti sarà confinato, genericamente, tra i bilanci di sostenibilità e tra i temi esclusivamente ambientali, e non come una cruciale questione economica e di competitività, si rimarrà lontani dall’offrire risposte davvero convincenti.