Ambiziosi target attendono di essere traguardati nei prossimi anni, puntando alla neutralità climatica nel 2050. Anche la gestione dei rifiuti e dell’acqua possono contribuire. Come? Riducendo il conferimento in discarica, sostenendo i biocarburanti e realizzando nuovi invasi per l’accumulo di energia, ad esempio. La riconversione dei tanti sussidi dannosi deve supportare questo percorso.

Green Deal o la sfida europea ai cambiamenti climatici

Secondo i dati di Google Trends, durante lo scorso settembre, la query “climate change” è riuscita a superare – sebbene per un breve lasso di tempo – ricerche ben più popolari come, per esempio, quelle legate a una notissima serie TV o all’attualità politica del presidente Trump. Erano i giorni del Summit sul Clima al Palazzo di Vetro dell’ONU, del potente “J’accuse” di Greta Thumberg ai governanti passati e presenti e delle manifestazioni studentesche in giro per il globo. Solo qualche mese più tardi, a dicembre, il vertice sul cambiamento climatico svoltosi a Madrid (la cosiddetta COP25) si è risolta con un nulla di fatto, senza cioè che gli Stati partecipanti si siano accordati sull’adozione di misure efficaci per ridurre le emissioni di CO2 e nel disinteresse quasi generalizzato dei media.

Tra i due avvenimenti – così diversi – rimane la certezza della necessità e dell’urgenza di adottare politiche concrete in grado di modificare l’attuale situazione. La salvaguardia dell’ambiente e il connesso concetto di sostenibilità devono forzatamente divenire la priorità dell’azione umana. Come ribadisce il World Economic Forum in un recente report, gli impatti del mutamento del clima saranno talmente severi da ripercuotersi su ogni ambito, da quello sanitario a quello economico-finanziario, sociale e geopolitico. Anzi, per gli oltre 750 esperti e decision maker che hanno contribuito al documento, nei prossimi 10 anni i primi cinque rischi globali in termini di probabilità avranno a che fare con l’ambiente. Ma non solo. Considerando lo stesso periodo, i cinque rischi più rilevanti per gravità dell’impatto troveranno negli squilibri del clima e nell’ambiente le principali cause: fallimento delle misure di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici, perdita importante della biodiversità e collasso dell’ecosistema, eventi meteorologici estremi (ad esempio, inondazioni, tempeste, ecc.) e crisi idrica. Unica deviazione dal tema, la posizione numero due, occupata dalla preoccupazione per un eventuale utilizzo di armi di distruzione di massa.

Eppure, osservando le cifre che riguardano la sola Italia, sembra di essere di fronte a dati di un conflitto armato piuttosto che a quelli relativi a fenomeni climatici. Alluvioni, frane, esondazioni, mareggiate: complessivamente, il nostro è uno dei Paesi europei più colpiti dalle conseguenze del clima, con 65 miliardi di euro di costi e 21mila decessi, tra il 1980 e il 2017 (Agenzia Europea dell’Ambiente, 2019). Cifre aggregate che raccontano di un danno pro capite di 1.120 euro e di quasi 215mila euro al km2.

Nell’immobilismo dei diversi summit e vertici mondiali, l’Europa comunitaria ha presentato un ambizioso piano noto come Green Deal. Si tratta di un programma di lotta al cambiamento climatico e a favore della sostenibilità ambientale da raggiungere attraverso 7 macro-direttrici. La prima è quella dell’energia, che dovrà essere, per la maggior parte pulita. Non poteva essere che questo il punto di partenza, considerando che alla produzione e all’impiego di energia sono imputabili il 79% delle emissioni di gas serra della UE, contro il 9% dell’agricoltura l’8% dei processi industriali e l’uso dei prodotti e il 3% dei rifiuti (Agenzia Europea dell’Ambiente, 2019).

Ma quali leve andranno azionate per modificare la situazione? La priorità va all’efficienza energetica e allo sviluppo delle fonti rinnovabili, che oggi coprono il 18% dei consumi finali lordi. L’obiettivo è quello di rendere l’Europa carbon neutral entro il 2050, divenendo il primo continente a impatto climatico zero e assumendo un ruolo di leadership globale.

All’energia segue la mobilità. L’energia c’entra ancora, dato che i trasporti contribuiscono per un terzo al totale dei consumi finali di energia nell’Unione, davanti all’industria (25%), ma dietro a quelli delle famiglie, dei servizi e dell’agricoltura (44%).

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L’obiettivo al 2050 è quello di diminuire del 90% tali emissioni, incominciando da quelle che riguardano il trasporto su strada, pari al 71% del totale nel settore dei trasporti.

Il terzo fronte d’azione ha come fine un’industria sostenibile e un’economia pienamente circolare. Il cammino è lungo, visto che la circolarità avviene solamente nella percentuale dell’11,7%; ciò significa che poco meno del 12% dei materiali utilizzati dall’industria dell’UE proviene dal recupero/riciclaggio. Il dato italiano (17,1%) è superiore alla media europea, attestandosi in linea con i migliori benchmark europei (Francia, Belgio, Regno Unito), eccezion fatta per i Paesi Bassi che rimangono lontani (29%).

Le ultime 4 direttrici riguardano:

–        l’edilizia, poiché gli edifici trattengono solamente il 40% dell’energia consumata;

–        la biodiversità, da preservare quanto più possibile per la sua capacità di attenuare le catastrofi naturali, contrastare la diffusione di parassiti e malattie che danneggino flora e fauna e regolare indirettamente il clima;

–        l’alimentazione, da modificare il più possibile secondo una logica “dal produttore al consumatore”;

–        l’eliminazione dell’inquinamento che significa essenzialmente un’acqua e un’aria pulite.

Come si diceva, un programma ambizioso – e ad oggi unico nel panorama mondiale – che necessita oltre che di volontà politica degli Stati membri anche di ingenti risorse economiche. A quanto si sa, si punta ad attivare oltre 1.000 miliardi di euro di investimenti supplementari tra pubblici e privati in 10 anni, destinando almeno il 30% del Fondo InvestEU alla lotta ai cambiamenti climatici. Fondamentale è anche la collaborazione con le istituzioni finanziarie, a partire dalla Banca Europea per gli Investimenti (BEI), che dal 2021 interromperà i finanziamenti per progetti legati ai combustibili fossili, incluso il gas. 

Il “deal” italiano, luci e ombre della nostra politica ambientale. Oltre all’energia anche rifiuti e sistema idrico

Oltre al Green Deal, i singoli Stati europei si sono dotati di particolari piani d’intervento denominati PNIEC, ovvero Piani Nazionali Integrati per l’Energia e il Clima. Quello italiano, elaborato nel 2019, ha l’obiettivo di fornire le direttive in materia per il periodo 2021-2030, aggiornando la Strategia Energetica Nazionale del 2017. Decarbonizzazione, efficienza e sicurezza energetica, mercato interno dell’energia, ricerca, innovazione e competitività: queste le questioni sulle quali il PNIEC si focalizza. Gli obiettivi da raggiungere vanno dalla produzione di una quota sempre maggiore di energia rinnovabile e pulita (fino al 30% di energia nei consumi finali), all’abbandono del carbone e all’adozione di politiche di efficientamento energetico fino alla promozione di una mobilità sempre meno vincolata ai combustibili fossili.

Alla strategia italiana per contrastare il climate change si è aggiunto un altro pezzo, il cosiddetto “Decreto Clima” (D.L. n.111/2019), entrato in vigore il 14 dicembre 2019. Questo documento, che avrebbe dovuto divenire la pietra angolare su cui costruire un’Italia green, si è rivelato essere un contenitore decisamente poco capiente, discostandosi fortemente dalle intenzioni iniziali, quando si prevedeva la possibilità di un percorso che avrebbe portato all’azzeramento dei sussidi alle fonti fossili. Ad oggi, invece, è composto, per lo più, da misure a carattere sperimentale o da delinearsi in un orizzonte temporale futuro, finanziate con risorse modeste.

Se l’energia, la mobilità e l’industria sono i principali ambiti sui quali è opportuno intervenire se si vogliono ridurre – in maniera sostanziale – gli effetti dell’inquinamento sull’ambiente non bisogna trascurare questioni come il ciclo dei rifiuti e il servizio idrico integrato.

Per quanto concerne specificatamente i rifiuti, il miglioramento della loro gestione è una delle misure previste dal PNIEC per agire sulla riduzione delle emissioni. Ma cosa si può fare per rendere il sistema Paese circolare e resiliente?

In primo luogo, occorre rispettare pienamente la gerarchia dei rifiuti, partendo dalla prevenzione, passando prima per la preparazione al riutilizzo e poi per il riciclaggio, allargandosi al recupero di energia e, infine, allo smaltimento. La discarica, dunque,deve essere considerata come l’ultima soluzione possibile e non, come purtroppo avviene in molte regioni italiane, la scelta principale. Per esempio, a fronte di una media nazionale del 22%, come quota di rifiuti finiti in discarica rispetto a quelli prodotti, il Molise si attesta al 102% con più rifiuti di quelli prodotti, la Sicilia al 69% e la Calabria al 52%. Al di sotto della soglia del 10% cui conformarsi entro il 2035, vi sono solamente 4 regioni: Campania, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige (dati ISPRA riferiti al 2018). 

Il ruolo della discarica si esaurisce naturalmente solo attraverso l’adozione delle misure del “Pacchetto Economia Circolare”[1] e la promozione di una seria politica industriale in materia impiantistica. È evidente che senza la realizzazione di impianti moderni ed efficienti per il trattamento dei rifiuti, essa rimane l’unica alternativa[2] poiché la raccolta differenziata da sola non basta[3]. Tutte queste azioni possono innescare un meccanismo virtuoso che partendo dalla riduzione della produzione di rifiuti vada, a cascata, idealmente ad azzerare le tonnellate di rifiuti che vengono depositate in discarica.

Per quanto concerne, invece, i biocarburanti, di cui i rifiuti costituiscono una fonte di produzione privilegiata, il PNIEC delinea un obiettivo particolarmente ambizioso per quelli “avanzati” (cioè prodotti a partire da biomasse non utilizzabili per l’alimentazione umana o animale): raggiungere l’8% dei carburanti totali immessi al consumo, a fronte di un obiettivo comunitario del 3,5% al 2030. Tale percentuale si ottiene sfruttando il meccanismo di incentivazione previsto dal D.M. del 2 marzo 2018 per il biometano e gli altri biocarburanti avanzati.

Non solo. I rifiuti possono essere determinanti anche su un altro versante della decarbonizzazione, mediante l’apporto che il Combustibile Solido Secondario (CSS) potrebbe garantire al mondo industriale, in particolare al settore dei cementifici. Come dettagliato ampiamente in un recente lavoro del Laboratorio[4], le ricadute ambientali e economiche sono positive. Potenzialmente, fino a 663 milioni di euro e oltre 10 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti di potenziali risparmi.

Infine, bisognerebbe eliminare i cosiddetti Sussidi Ambientalmente Dannosi (SAD), ovvero quegli aiuti pubblici – agevolazioni, esenzioni o finanziamenti – che sostengono misure che hanno un impatto negativo sull’ambiente. Complessivamente questi ammontano a 19,3 miliardi di euro (MATTM, 2019); con i suoi 4,9 miliardi di euro, il SAD più consistente in termini economici è il trattamento fiscale agevolato che viene riservato al gasolio, rispetto alla benzina. Una vera politica green s’impegnerebbe per trasformare i SAD in Sussidi Ambientalmente Favorevoli (SAF) per sostenere quelle attività che optano per soluzioni sostenibili, come – nel nostro caso – l’incentivazione della produzione di energia elettrica da biomasse e biogas e l’adozione su larga scala dei biocarburanti, inclusi quelli avanzati, come il biometano.

Veniamo al tema dell’acqua. In realtà ciò che colpisce è che tanto nel PNIEC come nel Decreto Clima si parli poco e troppo genericamente di sistema idrico. Una mancanza importante che andrebbe colmata, potenziando il ruolo degli invasi come accumulatori per la produzione di energia rinnovabile. Inoltre, dovrebbe essere proprio il PNIEC lo strumento in grado di sostituire la logica dell’emergenza (di cui si paga il conto e sulla quale si continua a fare affidamento)[5] con una di prevenzione.

Le questioni sono serie e urgenti, esse destano preoccupazione e timori, specialmente da un anno a questa parte. Avere un energia più rinnovabile e meno impattante migliorerebbe indubbiamente il computo delle emissioni nocive, con positive ricadute sull’adeguamento al cambiamento climatico. Lo percepiscono i cittadini dell’Unione Europea, dato che il 92% di essi si dichiara favorevole ad un’Europa climaticamente neutrale nel 2050 (Eurobarometro, 2019). Anche noi italiani abbiamo preso coscienza del problema climatico e siamo pronti a mettere in campo qualunque azione necessaria ad aumentare la resilienza al cambiamento, a patto di essere guidati efficacemente dalle Istituzioni[6]. Rispetto al 2017, coloro che ritengono il Climate Change come la principale “minaccia” che il mondo deve affrontare crescono del 12% (dal 7% al 19%), laddove quelli che dichiarano di aver messo in campo azioni per contrastare il cambiamento climatico negli ultimi 6 mesi addirittura del 18% (dal 34% al 52%). E questo è un importante risultato, che i policy maker non devono trascurare.

[1] Si veda il Contributo n.137 “La responsabilità estesa del produttore (EPR): una riforma per favorire prevenzione e riciclo” del Laboratorio REF Ricerche, dicembre 2019 e l’articoloPiù riciclo e meno rifiuti. L’economia circolare comincia anche da un diverso modo di concepire gli imballaggi.  

[2] Si rimanda, per ulteriori approfondimenti, al Contributo n.111 “Economia circolare: senza gli impianti vince sempre la discarica” del Laboratorio REF Ricerche, dicembre 2018.

[3] Si fa riferimento al Contributo n.140 “La responsabilità delle scelte: i fabbisogni impiantistici e il ruolo delle regioni” del Laboratorio REF Ricerche, gennaio 2020 e all’articoloRifiuti in movimento. Conoscere i fabbisogni del territorio per una politica regionale davvero responsabile.

[4] Si fa riferimento al Contributo n.135 “Decarbonizzazione a costo zero: il caso del combustibile da rifiuti” del Laboratorio REF Ricerche, novembre 2019 e all’articolo CSS. Il carburante derivato dai rifiuti che funziona ma quasi nessuno utilizza.

[5] Si fa riferimento, in particolare, al Contributo n.127 “Dall’emergenza alla prevenzione: urge un cambio di paradigma” del Laboratorio REF Ricerche, luglio 2019.

[6] Si fa riferimento al Contributo n.130 “Cambiamento climatico e resilienza: una responsabilità collettiva” del Laboratorio REF Ricerche, ottobre 2019.