La pianificazione regionale di gestione dei rifiuti ha consentito ad alcuni territori di dotarsi dell’impiantistica necessaria alla chiusura del ciclo dei rifiuti urbani indifferenziati, sostenendo un sistema integrato che permette il recupero sia di materia sia di energia. In altre realtà, i Piani non hanno avuto il coraggio di indicare come realizzare un sistema integrato, con l’ipocrisia che i rifiuti continuano a viaggiare tra impianti intermedi, tra Regioni ed a essere esportati all’estero per il recupero energetico.

Ripreso su Ricicla News, Green Report, Staffetta Rifiuti.

Il Programma Nazionale per la Gestione dei Rifiuti o PNGR

Le differenze esistenti e purtroppo perduranti tra Regioni italiane nella gestione dei rifiuti hanno reso necessaria l’adozione di misure in grado di assicurare il coordinamento della pianificazione regionale. Il Programma Nazionale per la Gestione dei Rifiuti (PNGR), introdotto dal D.Lgs. 116/2020, è pensato affinché gli obiettivi assunti a livello di sistema Paese siano implementati in un disegno organico.

Anche perché – come è ormai assodato – la via verso la sostenibilità e la tanto citata circolarità all’economia, passa innanzitutto dalla capacità di cambiare radicalmente prospettiva sul significato di “rifiuto”, sempre meno “scarto” e sempre più elemento da valorizzare (ne abbiamo parlato qui).

Quindi, l’indicazione di definire le linee strategiche che informano i Piani Regionali di Gestione Rifiuti (PRGR) rappresenta un elemento di discontinuità per la pianificazione regionale che, sovente, ha finito per non essere altro che un esercizio di stile, finalizzato a disarticolare i principi di autosufficienza regionale nello smaltimento dei rifiuti urbani non pericolosi, e di prossimità del recupero. Con che conseguenze? La quantificazione dei fabbisogni è stata sistematicamente “artefatta”, magnificando gli esiti delle politiche di prevenzione e lo sviluppo delle raccolte differenziate, piegando al ribasso gli scenari di produzione di rifiuti ed escludendo dal computo delle capacità impiantistiche i rifiuti speciali simili ai rifiuti urbani, che invece incidono sul raggiungimento delle capacità massime di trattamento degli impianti.

Queste “pianificazioni a prescindere” pongono le basi per il verificarsi di quei periodici episodi emergenziali e il perpetrarsi di costose migrazioni dei rifiuti o lungo l’asse Sud-Nord del Paese o verso l’estero. Tali spostamenti hanno un doppio costo: ambientale ed economico. L’Italia paga così, letteralmente, l’incapacità di trovare il consenso sugli impianti necessari al recupero energetico, sia da rifiuti organici sia da rifiuti indifferenziati, mentre gli altri Paesi ricavano energia e quindi altro denaro (rimandiamo ai nostri due paper sul ruolo delle istituzioni e sull’identità del NO).

Non è in discussione l’utilità di attività di prevenzione e riduzione della produzione di rifiuti o la necessità di dare impulso alle raccolte differenziate, quanto piuttosto la capacità di queste azioni di eliminare il bisogno di impianti che permettano il recupero di energia da quei rifiuti da cui non si può più recuperare materia. Ma non solo. Il progresso delle raccolte differenziate richiede capacità impiantistiche per il trattamento finale degli scarti da impianti intermedi. Inoltre, sottostimare il fabbisogno degli impianti è un modo per non colmare i deficit, con la conseguente impossibilità di assicurare autosufficienza e prossimità di trattamento. Una debolezza sistemica da correggere, in vista dei target europei al 2035 (65% di riciclo, max 10% di discarica), e che richiede un cambio di passo.

Prendendo in considerazione i diversi PRGR e osservando i risultati-target raggiunti da ciascuna Regione, si ha che Lombardia ed Emilia-Romagna hanno raggiunto o siano prossime agli obiettivi di Piano. Altre sono invece lontane, altre ancora come il Lazio, che ha di recente aggiornato il PRGR, ha previsto target molto sfidanti, quali un incremento del tasso di raccolta differenziata di 18 punti percentuali da raggiungersi entro il 2025 e un vago riferimento all’obiettivo di “discarica zero”, a fronte delle note carenze impiantistiche e di un tasso di conferimento in discarica ancora elevato, pari al 20%.

La gestione del rifiuto indifferenziato è il primo esempio delle criticità che attraversano la Penisola.

Il risultato delle diverse Regioni è rappresentato dalla differenza tra le tonnellate di rifiuto indifferenziato gestite e raccolte da ciascun territorio. Lombardia (+908.665 tonnellate) ed Emilia-Romagna (+385.164 tonnellate) sono realtà in cui il bilancio fa segnare saldi positivi consistenti. Al contrario, Campania (-500.586 tonnellate) e Lazio (-498.175 tonnellate) sono le regioni in cui le tonnellate raccolte superano di gran lunga quelle gestite nel territorio regionale.

Ma la divisione fra soggetti virtuosi e manchevoli non è così semplice come appare. Sul saldo influisce il tasso di smaltimento in discarica, oggetto di un obiettivo comunitario di massimo conferimento al 10% da raggiungere entro il 2035. Nello specifico, la quota di rifiuti urbani smaltita in discarica risulta già al di sotto del 10% tanto in Lombardia (4%) quanto in Emilia-Romagna (9%): in queste regioni non solo la gestione del rifiuto indifferenziato presenta un saldo positivo, ma è anche allineata con la gerarchia dei rifiuti, in quanto lo smaltimento in discarica ha un ruolo effettivamente residuale. Al contrario, il surplus di gestione di regioni come il Molise è raggiunto al prezzo di un elevato ricorso allo smaltimento in discarica, pari al 90% del fabbisogno nel 2019. Un caso particolare è rappresentato dalla Campania, dove lo smaltimento in discarica è pari all’1% dei rifiuti urbani raccolti, da cui esita l’ampio ricorso anche ad impianti situati fuori regione. Una situazione per molti versi simile è quella del Lazio (20%), un altro territorio esposto a frequenti episodi emergenziali.

Lazio e Campania totalizzano complessivamente uno sbilancio di gestione per circa 1 milione di tonnellate: considerata la magnitudo dei deficit non sembra azzardato affermare che la mancata autosufficienza nello smaltimento in queste regioni è la principale causa all’origine della migrazione di rifiuti nel Paese.

Anche la gestione del rifiuto organico è un buon esempio delle criticità che attraversano la Penisola. Il risultato delle diverse Regioni è rappresentato dalla differenza tra le tonnellate di rifiuto organico ricevute da altre regioni e quelle destinate fuori regione. Veneto (+410.859 tonnellate), Lombardia (+356.320 tonnellate) e Friuli-Venezia Giulia (+233.101 tonnellate) sono realtà in cui la bilancia commerciale dell’organico fa segnare saldi positivi consistenti. Al contrario, Campania (-414.936 tonnellate), Lazio (-219.906 tonnellate) e Toscana (-201.410 tonnellate) sono le regioni in cui le tonnellate esportate fuori regione superano di gran lunga quelle ricevute nel territorio regionale.

Anche in questo caso, è necessario fornire qualche opportuna specificazione per valutare il grado di autonomia gestionale delle regioni. Sul saldo influisce il livello di intercettazione della frazione organica, che dipende in larga misura dall’organizzazione delle raccolte differenziate. In Italia la media è di 121 kg/ab per il 2019 (ISPRA), con una forbice del dato regionale compresa tra i 185 kg/ab dell’Emilia-Romagna e i 64 kg/ab della Basilicata. Il dato elevato dell’Emilia-Romagna o del Veneto (156 kg/ab), dimostra che la prima ha una dotazione impiantistica adeguata al fabbisogno, mentre la seconda una capacità addirittura superiore al fabbisogno, a segnalare una vocazione industriale del territorio che può essere messa al servizio di regioni con impianti insufficienti o mancanti. Al contrario, il saldo positivo del Molise e della Sicilia risente del basso grado di intercettazione della frazione organica, rispettivamente pari a 77 e 78 kg/ab: ciò vuol dire ritardi nell’avvio delle raccolte differenziate, con ogni probabilità frenate dalla stessa mancanza di impianti di destinazione. Peraltro, se nelle regioni in surplus si osserva una prevalenza di impianti di taglia media superiore e tecnologicamente avanzati (digestori anaerobici in grado di coniugare recupero di materia e produzione di energia), nelle regioni in deficit la taglia degli impianti è mediamente inferiore, al pari della “cifra” tecnologica (si tratta infatti prevalentemente di compostaggi).

Infine, vi è un legame tra i surplus e i deficit impiantistici e le tariffe pagate dagli utenti, con gli extra-costi di gestione, derivanti dai deficit impiantistici e dall’export fuori regione, che hanno un impatto significativo sulle bollette degli utenti. Non è un caso, dunque, se tra le Regioni con il costo del servizio più elevato troviamo Campania (447 euro/mq) e Lazio (383 euro/mq), le due regioni con il deficit impiantistico più elevato. In fondo, nelle scelte di pianificazione impiantistica occorre tenere presente non solo le variabili quantitative legate ai rifiuti, ma anche gli impatti delle tariffe sugli utenti e la sostenibilità delle gestioni.

Il problema ambientale? Un problema “perfido” (e così va affrontato)

Si è detto che per invertire la situazione laddove le cose non vanno, occorre una pianificazione efficace. Questa, infatti, crea il contesto decisionale idoneo, nel quale le istituzioni riescono a progettare, finanziare e attuare un sistema integrato di gestione dei rifiuti: una rete logistica e industriale “completa e tecnologicamente avanzata” dedicata ad ottimizzare il recupero, dalla più ampia tipologia di rifiuti, di materia ed energia.

È tuttavia importante partire dal riconoscere un fatto: che il problema della gestione dei rifiuti più che “complesso” (aggettivo abusato), si potrebbe definire “perfido secondo un’accezione proposta da un gruppo di ricercatori negli anni Settanta.

Cosa significa? La prima caratteristica di un problema perfido è la sua difficile definizione: gli elementi che compongono un sistema integrato di gestione rifiuti sono tanti e articolati che spesso i diversi attori definiscono il problema, e quindi la soluzione necessaria, in modo diverso.

In Italia, per molti cittadini e amministratori locali, la definizione del problema “gestione rifiuti” sembra coincidere con la negazione della necessità di costruire impianti, ritenendo che la tariffa puntuale e una raccolta differenziata spinta siano la soluzione di tutti i mali. Purtroppo, così non è. Altri soggetti, che accettano la sfida, definiscono il problema come la capacità di realizzare un sistema articolato, fatto di efficaci organizzazioni della raccolta e di una rete di impianti industriali che ottimizzino il recupero di materia ed energia.

Ogni problema perfido è il sintomo di un altro problema: nel caso dei rifiuti, la complessità nasce da alcune distorsioni o degenerazioni del nostro modo di produrre e consumare. Per questo, analoga attenzione va riservata alle politiche orientate alla prevenzione della produzione di rifiuti, sia urbani sia da attività produttive, che vanno dalla progettazione dei beni (ecodesign) al sostegno al riuso e alla rigenerazione. Ugualmente importante è avviare una riflessione su quantità e tipologia degli oggetti che produciamo e consumiamo in un Paese ad alto reddito come il nostro.

Per un problema “perfido” non c’è una regola per definire quando è stato risolto. La soluzione tecnica formulata in un dato momento è applicabile e valida per un dato periodo di tempo (il Piano), allo scadere del quale è necessario prendere atto dei risultati e ripartire dalle nuove condizioni create dal precedente intervento. Per questo è così importante che gli attori concordino sulla definizione del problema: perché questo pone le necessarie premesse per giungere a soluzioni condivise.

Nei problemi di pianificazione non esistono risposte vere o false. Ci sono molti soggetti interessati o autorizzati a giudicare le soluzioni, ciascuna delle quali presenta probabilmente dei pro e dei contro. I giudizi sulle politiche differiscono in accordo al gruppo di appartenenza, agli interessi personali, ai valori in cui ci si riconosce. Sta al pianificatore, nazionale e regionale, raccogliere queste “preferenze” portandole ad una sintesi, arrivando comunque ad una soluzione adeguata alle esigenze del territorio.

La soluzione non ha effetto immediato: essa genera conseguenze che si manifestano per lungo tempo, almeno quanto la durata degli impianti realizzati.

La necessità di un’altra metodologia

Quindi, come valutare le conseguenze della scelta di una specifica tipologia e capacità di impianti? Sicuramente non bisogna affrontare la pianificazione della gestione dei rifiuti come se fosse riducibile ad alcuni elementi singoli, slegati tra loro, quali l’affidamento del servizio di raccolta differenziata o la gestione di singoli impianti di trattamento. Ciò significa rinunciare a comprendere e governare l’intero sistema di gestione e condannarsi a predisporre interventi non risolutivi, di corto respiro.

Piuttosto una pianificazione efficace deve descrivere il problema, definire il ruolo delle singole tipologie impiantistiche, valutare le soluzioni alternative e prendere una decisione.

Gli impianti generici non esistono, esistono tecnologie diverse che possono essere adottate con combinazioni differenti per recuperare materia ed energia o smaltire (quando il recupero è già avvenuto).

Ma come scegliere gli impianti adatti a una specifica realtà regionale? Per individuare gli impianti e la capacità di trattamento necessarie al raggiungimento dell’autosufficienza territoriale (regionale o di macroarea) e per fare sì che il recupero avvenga in prossimità, i pianificatori regionali devono essere in grado di rispondere a tre domande:

  1. Sulla base di quali indicatori si quantifica la carenza di impianti?
  2. Come si selezionano tipologia e capacità degli impianti da realizzare?
  3. Come valutare se le soluzioni individuate rispondono ai criteri ambientali stabiliti dalla UE (la cosiddetta tassonomia green)?

L’analisi dei flussi e dei fabbisogni impiantistici di un sistema di gestione (ADF[1]) è uno strumento al servizio di scelte consapevoli. Essa fornisce una base razionale per rispondere alle esigenze di una pianificazione efficace, in quanto permette di:

  1. Descrivere un sistema di gestione esistente nella sua interezza e individuare le carenze/criticità organizzative e impiantistiche.
  2. Formulare scenari alternativi di dettaglio che introducono gli elementi organizzativi, logistici e impiantistici con cui raggiungere l’auto-sufficienza di trattamento e ottimizzare il recupero di materia ed energia.
  3. Comparare le soluzioni formulate con la metodologia del LCA, che seguendo l’evoluzione normativa entrerà sempre più a far parte degli strumenti di valutazione ambientale.

Inoltre, l’applicazione dell’ADF supporta i pianificatori nel calcolo dei costi e dei ricavi del sistema di gestione rifiuti esistente, per la quantificazione degli investimenti necessari in ogni scenario di evoluzione e per valutare le scelte di investimento.

Il metodo dell’ADF di un intero sistema di gestione richiede la descrizione completa e dettagliata dei flussi che attraversano le fasi gestionali e questo è reso possibile raccogliendo e organizzando una elevata mole di dati. Una raccolta dati efficace necessita del coinvolgimento di numerosi attori: amministrazioni pubbliche, gestori del servizio di raccolta, gestori degli impianti di trattamento e di destinazione finale, autorità di controllo ambientale e sanitario.

Senza dubbio, dunque, per superare le attuali difficoltà delle Regioni che presentano maggiori carenze impiantistiche a chiusura del ciclo si rende necessaria l’adozione di metodologie robuste di pianificazione, linee guida e obiettivi in grado di indirizzare i Piani regionali.

Infine, non bisogna trascurare l’eccezionalità del momento in cui ci si trova. In questo senso, il PNGR è chiamato al difficile compito di indagare gli effetti della pandemia e delle innovazioni apportate dal D.Lgs. 116/2020 in termini di perimetro del servizio, fornendo “binari” chiari di supporto alla pianificazione regionale. Se accetterà la sfida, il Programma Nazionale di Gestione dei Rifiuti (PNGR) potrà diventare un importante elemento di innovazione.


[1] S. Tunesi. 2014. “Conservare il valore – L’industria del recupero e il futuro della comunità”, pg. 380.  Luiss University Press.