Il risk-based approach segna un radicale cambio di paradigma per il servizio idrico integrato. Per risk-based approach si intende avere una visione preventiva (forward looking) dei possibili pericoli connessi alla filiera idropotabile e adottare degli strumenti per impedirne la manifestazione. Si tratta di un’opportunità unica per i gestori per garantire agli utenti un’acqua con un buono stato di qualità, un elemento che renderà questa risorsa ancora più universale.
Tra le questioni ambientali fondamentali, quelle che riguardano l’acqua e la sua tutela risultano essere le più impattanti sulla vita degli esseri umani. Eppure la risorsa idrica è tanto preziosa come, al contempo, poco protetta e salvaguardata; una mancanza di attenzione molto marcata in passato, figlia di convinzioni erronee quali la sua inesauribile disponibilità e una sua continua rigenerazione.
Oggi, complici l’emergenza climatica e la diffusione di temi legati alla sostenibilità, la situazione sta cambiando. Una trasformazione a cui contribuisce un nuovo quadro normativo che, partendo da Bruxelles, si diffonde per gli Stati dell’Unione europea, Italia compresa. Stiamo parlando della recente Direttiva sulle acque Potabili (Direttiva UE 2020/2184), entrata in vigore il 12 gennaio 2021 e a cui i membri della Ue dovranno conformarsi entro il gennaio 2023.
Perché è importante questo intervento legislativo? Oltre al fatto di essere un atteso aggiornamento di una Direttiva ormai datata al 1998 (98/83/CE, recepita in Italia con il D.Lgs 31/2001), essa si caratterizza per sostanziose novità sia di merito che di approccio. Vediamo, in sintesi, i punti principali.
- Primo, vi è stata la ridefinizione dei parametri chimici, fisici e biologici che garantiscono un buono stato di qualità dell’acqua. Ciò significa rimodulare in senso più stringente le concentrazioni di piombo, cloro e cloriti e ad introdurre nuove sostanze tra quelle da sottoporre a controllo.
- Secondo, sono stati introdotti nuovi inquinanti emergenti come i composti perfluoroalchilici (PFAS), sostanze di origine industriale utilizzate in molti settori come il tessile, la produzione della carta e le schiume antincendio, che presentano caratteristiche di persistenza nell’acqua e tossicità, con conseguenti rischi per la salute.
- Terzo, si è posta una specifica attenzione agli inquinanti emergenti come i cosiddetti interferenti endocrini, prodotti farmaceutici e le ormai famose microplastiche (ne abbiamo discusso nel Paper n. 155), i cui studi sugli effetti per la salute umana sono ancora in corso. Per questa tipologia di sostanze saranno previste delle watch list nelle quali verranno fissati i quantitativi massimi ammissibili nelle acque destinate al consumo umano.
- Infine, una parte importante è dedicata alla sensibilizzazione dei cittadini verso i consumi – e dunque nell’evitare gli sprechi – e alla necessità di garantire un accesso universale all’acqua.
Senza dubbio, però, il più significativo cambio rispetto al passato riguarda il tipo di approccio alla gestione della risorsa idrica, con l’introduzione del concetto di risk-based approach o approccio basato sul rischio. Ciò significa che alle misure di sorveglianza adottate sinora si sostituiscono azioni di mitigazione del rischio con un orientamento verso la prevenzione degli impatti ambientali. Per un doppio vantaggio, insieme ambientale ed economico: infatti prevenire un rischio potenziale, ad esempio una possibile contaminazione della falda acquifera a causa della presenza di inquinanti emergenti richiede un investimento inferiore a quanto necessario a rimediare alle conseguenze di eventi avversi (si veda anche il nostro Paper n. 127).
Ma cosa vuol dire approccio basato sul rischio? Il risk-based approach si caratterizza per il fatto di non misurare gli impatti di un fenomeno passato (backward looking), ma di valutare la probabilità che un dato evento possa generare effetti negativi di una certa gravità in futuro (forward looking). Una metodologia già diffusa in molteplici settori: dall’ambito finanziario a quello assicurativo, sino alle previsioni su potenziali catastrofi ambientali, come incendi o terremoti. Il rischio è, dunque, dato dal prodotto tra probabilità di accadimento di un fenomeno e danno da esso generato.
Benché lo slogan “prevenire è meglio che curare” sia tutt’altro che nuovo, esso tuttavia continua a veicolare un’importante verità. Una vera svolta, specialmente per un settore come quello del servizio idrico che fino ad ora poco si è curato del tema della prevenzione. Nella precedente Direttiva 98/83/CE tale principio risultava assente, in quanto alle misure di prevenzione si prediligevano attività di sorveglianza per valutare la concentrazione di sostanze con potenziali effetti negativi sulla salute.
Tra i diversi ambiti coinvolti nel processo di gestione del rischio vi sono i bacini idrografici, i sistemi di fornitura e quelli di distribuzione domestica. Proviamo a soffermare l’attenzione su questi ultimi e vediamo cosa prevede la Direttiva. In questo caso si richiede di provvedere ad un’analisi dei rischi potenziali associati all’acqua del rubinetto, con l’obiettivo di tenere la concentrazione di inquinanti entro i limiti. A questo proposito la Direttiva ribadisce la necessita di:
- “informare i consumatori e i proprietari di locali pubblici e privati in merito alle misure volte a eliminare o ridurre il rischio di non conformità alle norme di qualità delle acque destinate al consumo umano a causa del sistema di distribuzione domestico”
- “promuovere corsi di formazione per gli idraulici e gli altri professionisti che operano nei settori dei sistemi di distribuzione domestici e dell’installazione di prodotti e materiali da costruzione che entrano in contatto con l’acqua destinata al consumo umano”.
All’interno del nuovo quadro di gestione della risorsa idrica la consapevolezza e la sensibilizzazione dei cittadini assumono dunque un ruolo centrale (per approfondire si rimanda al Paper n. 166).
Nonostante il testo della nuova Direttiva fornisca un framework piuttosto dettagliato di come debba essere messa in atto la valutazione del rischio, è bene ribadire che l’Italia si era già “portata avanti” con il D.Lgs del 14 giugno 2017 che recepiva la Direttiva 2015/1787/CE. Il risk-based approach indicato dalla Direttiva 2020/2184/CE è implementato attraverso i Water Safety Plan (in italiano Piani di Sicurezza dell’Acqua, PSA) proposti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2004 e su cui l’Istituto Superiore della Sanità ha elaborato una serie di linee-guida nel 2014.
I PSA sono un sistema integrato di prevenzione e controllo basato sull’analisi di rischio sito-specifica estesa all’intera filiera idro-potabile. Possono essere considerati come uno strumento di gestione del rischio utilizzato dai gestori per assicurare che l’acqua destinata al consumo umano sia caratterizzata da un buono stato chimico, fisico e biologico (si veda Paper n. 71). La capacità di mettere in pratica questi strumenti richiede competenze tecniche molto diverse, in quanto la gamma di conoscenze è piuttosto eterogenea: dall’ingegneria idraulica, alla chimica, alle teorie sul risk-management, fino alla corporate social responsibility. Gli obiettivi associati all’introduzione dei PSA sono molteplici: dalla prevenzione di potenziali emergenze idro-potabili lungo tutta la catena di approvvigionamento idrico dovute a valori dei parametri fuori norma, sino alla ridefinizione di nuove zone di salvaguardia, con particolare attenzione alle aree di captazione delle acque; dall’allestimento di sistemi early-warning che possano intercettare potenziali rischi di contaminazione, alla condivisione di tali informazioni a tutti i portatori di interesse (istituzioni, regolatore nazionale, cittadini). In sintesi, prevenzione, innovazione e trasparenza.
Occorre segnalare che l’Istituto Superiore della Sanità, all’interno delle linee-guida, indica come prioritaria la necessità di eseguire verifiche su tre attività fondamentali legate all’attuazione dei PSA: 1) conformità dei dati di monitoraggio con gli standard europei, 2) conformità dei PSA con le linee-guida dell’ISS e 3) soddisfazione dei consumatori.
Quest’ultimo punto si inserisce in quel percorso di stakeholder engagement che gli operatori dell’idrico devono intraprendere, considerando che essi operano in nome e per conto dei cittadini-utenti. Di conseguenza, un tema fortemente connesso con la salute come quello del risk-based approach (e dunque dell’adozione dei PSA) non può essere escluso dal dibattito. La sensibilizzazione dei cittadini passa da una corretta formazione e informazione su tutti i rischi nella filiera delle acque destinate al consumo umano.
E una corretta informazione potrebbe attivare quel meccanismo che in inglese si chiama di Willingness to Pay e cioè la “disponibilità a pagare qualcosa in più” che un utente dimostra di avere in cambio di veder migliorata la qualità di un bene o servizio. In questo modo si potrebbe arrivare a quantificare quanto i cittadini sarebbero disposti a spendere (in termini di aumento sulla bolletta idrica) per avere dei miglioramenti crescenti su aspetti che riguardano la qualità della propria salute.
Ma a che punto siamo in Italia? Anche il Regolatore sta guardando con attenzione ai PSA, come evidenziato all’interno della Relazione Annuale ARERA 2020. Tuttavia, i dati oggi disponibili si riferiscono al 2016, quando la Direttiva 2015/1787/CE in tema di approccio al rischio non era stata ancora convertita in legge e quindi non sussisteva l’obbligatorietà di applicare i PSA. Secondo quanto riportato dai dati elaborati dall’Autorità, l’adozione dei PSA ha interessato un numero di operatori che nel complesso serve il 16% della popolazione nazionale, concentrato prevalentemente nell’area Nord-Ovest del Paese, dove la copertura in termini di popolazione residente supera il 50%. Al Centro e nel Sud e Isole, lo strumento è praticamente assente.
In merito alla valorizzazione dei PSA all’interno dei Piano degli Interventi, noi come Laboratorio REF Ricerche abbiamo svolto un monitoraggio per verificare quanti gestori, in rapporto alla popolazione da questi servita, hanno investito o si accingono a introdurre dei PSA nel quadriennio 2020-2023. Su un campione di 84 gestioni che coprono una popolazione di circa 35 milioni di abitanti residenti, un sotto-campione di 23 (pari a circa il 20% della popolazione del campione) prevede di investire risorse per l’adozione del PSA all’interno del Piano degli Interventi. È bene ribadire che i 23 gestori del sotto-campione sono una parte dei soggetti che hanno avviato un percorso di adozione dei PSA. Talvolta, infatti, i Piani di Sicurezza delle Acque non figurano come investimenti, e di conseguenza non sono valorizzati nel Piano degli Interventi, ma come maggiori costi operativi.
Il risk-based approach rappresenta, comunque, un tema di frontiera. In questo senso, è auspicabile che ARERA possa integrare tale metodologia all’interno degli strumenti di regolazione esistenti: ai tradizionali indicatori basati sull’efficienza operativa o sul raggiungimento di target di qualità tecnica o contrattuale si potrebbero integrare, in determinati casi, indicatori che misurano gli sforzi profusi per prevenire gli eventi e le conseguenze avverse di questi ultimi, in termini di minore probabilità di accadimento. Questo secondo una regolazione di tipo risk-based, che rappresenterebbe una novità per il settore idrico in Italia.
Tale approccio andrebbe a “dialogare” con l’attuale regolazione sulla Qualità Tecnica. Questo cambio di paradigma parte dal presupposto che esistono fattori contingenti di carattere esogeno (conformazione territoriale, posizione geografica) che influiscono sugli obiettivi di qualità come il buono stato della risorsa, le interruzioni di servizio e le perdite idriche.
Nel contesto regolatorio attuale il metro di valutazione è il medesimo ma il campo di gioco può essere anche significativamente diverso: ciascun gestore, a prescindere dall’impatto dei fattori specifici di contesto territoriale, è valutato con le medesime metriche, laddove invece il garantire la continuità del servizio, minimizzare al massimo le perdite di rete e garantire il buono stato di qualità della risorsa potrebbero richiedere livelli di investimenti molto differenziati.
Si aprono dunque riflessioni circa la possibilità di prevedere obiettivi diversi in funzione del territorio gestito rimanendo nell’alveo della regolazione output-based (ovvero con una modulazione di alcuni degli obiettivi in base alle specificità territoriali) o di introdurre un approccio basato sulla valutazione del rischio come nuova strumentazione regolatoria per raggiungere i medesimi obiettivi. La “via di mezzo” potrebbe essere l’integrazione di un approccio risk-based in specifici contesti regolatori attinenti ad alcuni aspetti della qualità tecnica, come ad esempio quello relativo alle interruzioni di servizio o la qualità della risorsa.
Una certezza: il risk-based approach irrompe nel quadro regolatorio attuale e apre a soluzioni innovative per incentivare le gestioni a migliorare le performance qualitative del servizio.