La recente proposta di revisione della Direttiva acque reflue indica la necessità di innalzare gli standard della depurazione europea entro il 2040. I capisaldi sono: estensione del perimetro degli agglomerati soggetti agli obblighi, nuovi limiti di concentrazione degli inquinanti e introduzione di obblighi di trattamento quaternario. A questi si aggiungono i Piani integrati per la gestione dei reflui, l’istituzione della responsabilità del produttore per gli inquinanti rilasciati dai prodotti immessi al consumo e la richiesta di neutralità energetica per il segmento della depurazione.

La direzione è certamente corretta. Occorre però valutare la fattibilità tecnica e la sostenibilità economica degli interventi proposti.

Acque reflue civili e meteoriche

La salute dei bacini idrici e dei corsi d’acqua del nostro Paese è costantemente minacciata dagli agenti inquinanti originati dalle attività umane. Le acque reflue civili – cioè l’insieme delle acque reflue domestiche e di attività economiche non di tipo industriale – costituiscono una delle fonti di potenziale inquinamento dei corpi idrici. Ma non solo. Le acque meteoriche, derivanti dal drenaggio urbano delle città, rappresentano anch’esse potenziale causa di inquinamento, specialmente quando, in caso di forti piogge o alluvioni, l’attivazione degli scaricatori di piena porta a un loro sversamento direttamente nei corsi d’acqua superficiali.

Inoltre, se la crescente antropizzazione e l’emergere di nuovi inquinanti in concentrazioni sempre più elevate richiedono azioni di rinforzo nella depurazione dei reflui, allo stesso tempo, un trattamento depurativo delle acque reflue più spinto comporta un maggiore consumo di energia e un aumento dei volumi dei fanghi prodotti e da gestire.

La regolazione europea ha affrontato il tema dell’inquinamento da acque reflue urbane facendo perno sul principio di precauzione e imponendo un monitoraggio costante delle concentrazioni di sostanze potenzialmente dannose per la salute umana. Dal 1991, la Direttiva del Consiglio europeo 91/271/EEC o se si preferisce Urban Waste Water Directive (UWWD), disciplina il trattamento delle acque reflue in ambito comunitario, promuovendo il corretto smaltimento dei reflui urbani per evitare che la loro re-immissione in natura possa causare impatti negativi sugli ecosistemi.

Ora vi è una proposta di revisione di questa normativa quadro in materia di acque reflue (COM/2022/541 final del 26 ottobre 2022). Presentata dalla Commissione Europea, essa riconosce i meriti della UWWD, ma pone l’accento sulla necessità di dare risposta alle nuove criticità derivanti dall’evoluzione socioeconomica dei Paesi membri e dagli effetti del cambiamento climatico.

Perché serve una revisione

Ciò che propone la Commissione non è solo un semplice aggiornamento della lista delle sostanze inquinanti da monitorare e rimuovere, ma un modo di ripensare la depurazione delle acque come anello di congiunzione di una economia circolare e sostenibile. Su quali fronti è opportuno agire? Innanzitutto, occorre estendere l’attuale perimetro dei soggetti obbligati al rispetto della direttiva, visto che la disciplina tutt’ora vigente si focalizza sui reflui civili trattati in modo centralizzato, escludendo gli agglomerati sotto i 2.000 Abitanti Equivalenti (A.E.)

In secondo luogo, l’attuale normativa non pone la dovuta attenzione a fonti di inquinamento diverse da quelle originate dai reflui civili, quali quelle derivanti dal sistema di drenaggio urbano a seguito di precipitazioni (acque meteoriche di dilavamento, come da Position Paper n. 202). Da una nostra ricerca del 2021, ad oggi in Italia, il 71% dell’estensione della rete fognaria è di tipo misto, ossia raccoglie nella stessa infrastruttura sia le acque reflue di insediamenti civili e/o produttivi sia le acque di origine meteorica e li confluisce nei medesimi impianti di depurazione.

In terzo luogo, la direttiva risulta ormai superata rispetto all’intensità e al perimetro degli inquinanti di cui viene richiesto il trattamento. Da una parte, i limiti normativi imposti non riescono più a catturare adeguatamente la concentrazione degli inquinanti nelle acque reflue in ragione delle trasformazioni sociali e produttive avvenute negli ultimi 30 anni; dall’altra, si riscontrano nuove tipologie di inquinanti, in particolare i cosiddetti microinquinanti, quali ad esempio le sostanze farmaceutiche, che riescono a sfuggire al trattamento terziario. Infine, la proposta di direttiva intende recepire i nuovi obiettivi ambientali indicati dallo European Green Deal edal Regolamento sulla Tassonomia UE (si veda Position Paper n. 195): al pari degli altri settori produttivi, anche la depurazione delle acque reflue è chiamata a ridurre le proprie emissioni climalteranti, efficientare il proprio consumo di energia, migliorare la gestione dei fanghi e potenziare il riuso sicuro delle acque trattate.

Quali novità nella proposta

Le novità contenute nella proposta di revisione COM/2022/541 final del 26 ottobre 2022 riguardano sia il perimetro dei soggetti destinatari degli obblighi della Direttiva, sia il novero degli inquinanti oggetto di monitoraggio e contenimento delle relative concentrazioni.

Sul primo punto, la proposta prevede l’estensione degli obblighi di collettamento e allacciamento alla rete fognaria e agli impianti di depurazione agli agglomerati tra i 1.000 e i 2.000 A.E. (“piccoli agglomerati”), con un vincolo temporale di adeguamento stringente, ovvero entro il 31 dicembre 2030. Su queste basi anche i reflui provenienti da centri abitati minori dovranno essere convogliati all’interno di un sistema monitorato e standardizzato per la depurazione, garantendo che siano sottoposti almeno ad un trattamento secondario e quindi osservare il rispetto delle concentrazioni massime per gli inquinanti previste dalla normativa.

Per quanto riguarda il trattamento terziario per la riduzione delle concentrazioni di fosforo e di azoto presenti nelle acque reflue, la proposta di revisione prevede che tutti gli impianti con almeno 100mila A.E. siano adeguati entro il 31 dicembre 2035, mentre per gli impianti con almeno 10mila A.E. la data ultima per l’adeguamento è fissata al 31 dicembre 2040.

Vi è poi la proposta di integrare un trattamento aggiuntivo di tipo quaternario, al fine di trattare quelle sostanze presenti nelle acque reflue per le quali sino ad oggi non erano previsti obblighi di trattamento (microinquinanti, sostanze di origine farmaceutica o chimica presenti nelle acque che di per sé non rappresentano un pericolo per la salute umana o per l’ambiente, ma che possono diveltarlo se presenti in concentrazione elevata o in combinazione con altre sostanze).

Il percorso di adattamento previsto è graduale, con i primi obblighi che scattano al 2030 egiungere alla completa applicazione entro il 2040. Dal tenore della proposta di revisione, appare chiara la volontà della Commissione UE di garantire un monitoraggio costante degli inquinanti presenti nelle acque reflue, applicato in modo uniforme in tutti gli Stati membri, in modo tale da evitare che una differente modalità di trattamento in un territorio possa comportare conseguenze negative per gli altri. Altra finalità è quella di migliorare la conoscenza dello stato delle acque reflue in termini di rischi per lambiente e per la salute umana, non soltanto per quanto riguarda le sostanze tossiche o gli inquinanti, ma anche per gli agenti patogeni che possono causare la diffusione di malattie, come hanno insegnato questi anni segnati dalla pandemia di COVID-19.

E i costi? La Commissione ha affiancato alla proposta anche alcune stime sul costo degli interventi e degli investimenti necessari: si prevede una spesa di intervento pari a 3,8 miliardi di euro l’anno fino al 2040, dei quali il 50% saranno coperti dalle tariffe idriche, con un incremento medio delle tariffe europee del 2,3%.

I Piani Integrati di gestione delle acque reflue urbane

Una delle novità più incisive della proposta di revisione è l’obbligo per gli agglomerati urbani con più di 100 mila A.E. di redigere entro il 31 dicembre 2030 i Piani integrati di gestione delle acque reflue urbane (Integrated urban wastewater management plans, nel seguito semplicemente Piani Integrati).

Con i Piani Integrati si dovrà programmare una corretta gestione integrata delle acque reflue urbane, con particolare attenzione alle acque meteoriche, così da ridurre il rischio di inquinamento diretto dei corsi d’acqua in conseguenza di piogge copiose o eventi alluvionali.

Gli Stati membri dovranno poi assicurare che nella redazione dei Piani Integrati le autorità competenti prevedano almeno due tipologie di misure qualificanti:

  • interventi per evitare che le acque non inquinate delle precipitazioni entrino nel sistema di collettamento, includendo misure naturali (Natura Based Solutions – NBS) di ritenzione o di raccolta di acqua piovana (ex. tetti verdi) e misure che aumentino gli spazi verdi e limitino l’impermeabilizzazione del suolo (si veda Position Paper n. 228);
  • interventi per ottimizzare l’uso delle infrastrutture già esistenti, inclusi i sistemi di collettamento, la capacità di stoccaggio, gli impianti di trattamento già esistenti con l’obiettivo di assicurare che le acque da precipitazioni inquinate siano raccolte e opportunamente trattate.

L’obbligo verrebbe esteso, posticipandolo al 31 dicembre 2035, anche agli agglomerati più piccoli (tra 10mila e 100mila A.E.).

La redazione di tali Piani integrati può essere unoccasione per estendere lanalisi a tutti i potenziali rischi cronici e acuti derivanti dai cambiamenti climaticiche possono incidere sulla funzionalità delle reti di collettamento, dei manufatti di sollevamento e di sfioro e sugli impianti di depurazione permettendo di identificare eventuali misure di adattamento delle infrastrutture al cambiamento climatico. Un aspetto richiesto anche dalla Tassonomia europea nell’ambito dei criteri di Do No Significant Harm con riferimento all’adattamento al cambiamento climatico per le attività di costruzione, estensione, gestione e rinnovo di sistemi di raccolta e trattamento delle acque reflue (si rimanda al Position Paper n. 195).

Per quanto riguarda la realizzazione di nuove infrastrutture, priorità dovrà essere data alle soluzioni basate sulla natura, ovvero alla creazione di infrastrutture verdi, quali interventi di rinaturalizzazione, zone umide di filtrazione e stagni di raccolta delle acque piovane (fitodepurazione).

Il principio del “chi inquina paga” (ma non per tutti)

La Commissione UE indica che al settore farmaceutico e della cosmesi è riconducibile il 92% del carico di sostanze tossiche (toxic load) presente nelle acque reflue. Per questo motivo la revisione della direttiva introduce per la prima volta il principio di responsabilità estesa del produttore (extended producer responsibility, EPR) per gli inquinanti che derivano da prodotti industriali, come farmaci e prodotti cosmetici.

L’idea di fondo della nuova direttiva è di estendere al settore della depurazione il principio “chi inquina, paga”, come già accade nella gestione dei rifiuti (si veda il Position Paper n. 137), in modo che il costo della rimozione degli inquinanti dai reflui ricada sui settori industriali responsabili della loro produzione.

Gli Stati membri saranno pertanto chiamati a promuovere misure per assicurare che tutti i produttori di farmaci e di cosmetici siano chiamati a incorporare le esternalità ambientali causate dal consumo dei rispettivi prodotti.

In questo quadro, tuttavia, si registra un “grande assente”. Infatti, tra i settori inquinanti non è stato inserito il tessile. È sufficiente sapere che a causa del solo lavaggio dei vestiti vengono rilasciate ogni anno nei mari mezzo milione di tonnellate di microfibre.

La neutralità energetica

Accanto alla responsabilità estesa del produttore, la proposta di revisione introduce il principio dellenergy neutrality degli impianti di trattamento dei reflui urbani. Il principio chiede che il quantitativo di energia utilizzata nei processi depurativi sia pari all’energia da fonte rinnovabile autoprodotta negli stessi impianti di depurazione.

Sebbene infatti il 60% dei consumi energetici del servizio idrico integrato origini dalla attività di acquedotto, captazione, potabilizzazione e pompaggi, la depurazione contribuisce per una quota pari al 30%, principalmente in ragione dell’energia utilizzata per alimentare gli impianti di aerazione e movimentazione dei reflui e dei fanghi (si veda Position Paper n. 223).

La proposta di revisione prevede che gli Stati membri siano chiamati ad assicurare che gli impianti di trattamento e i collettori dei reflui urbani siano sottoposti, a cadenza quadriennale, ad unanalisi di bilancio energetico (energy audit).

La neutralità energetica sarà richiesta agli impianti con capacità superiore ai 10mila A.E. con una tabella di marcia graduale, in modo che la quota di volumi di energia da fonti rinnovabili annualmente prodotta a livello nazionale dagli impianti sul totale consumato sia pari al 100% entro il 31 dicembre 2040 (con step intermedi nel 2030 e 2035).

Si apre dunque un doppio tema in merito alla richiesta di neutralità energetica: da un lato, la possibilità di innovazione per efficientare i consumi energetici del settore della depurazione attraverso tecnologie meno energivore, dall’altro la necessità di investire in fonti di energia rinnovabile al fine di garantirne il bilanciamento. I due temi sono strettamente integrati, coerenti e forse addirittura più ambiziosi rispetto agli obiettivi posti dalla Tassonomia europea in termini di mitigazione dei cambiamenti climatici per il segmento della depurazione. Per quanto auspicabile, infatti, l’obiettivo di neutralità energetica risulta altamente sfidante per il settore, in ragione degli ingenti investimenti necessari. In questo senso è sperabile che la direttiva indichi la possibilità di raggiungere la neutralità energetica con l’acquisto di energia rinnovabile da fornitori certificati o altre misure di compensazione riconosciute a livello nazionale ed europeo. Ciò dovrebbe essere possibile ogni qualvolta gli audit di bilancio energetico, svolti in ottica di costo-opportunità, dimostrino che non vi siano le condizioni tecniche ed economiche per raggiungere la neutralità energetica con misure di efficientamento e autoproduzione da fonte rinnovabile.

Una riforma necessaria che necessita flessibilità

Un’ultima riflessione. Benché la direzione tracciata dalla Commissione Europea sia certamente quella auspicabile, essa deve tenere conto della eterogeneità dei contesti territoriali, del diverso grado di sviluppo industriale e delle competenze, oltre che dei tempi e dei costi ingenti da qui al 2040. Si tratta di evitare un percorso a macchia di leopardo non solo tra Stati membri, ma anche all’interno degli Stati stessi e per l’Italia di non aggravare il già noto Water Service Divide. Le autorità di regolazione, nazionale e locale, avranno quindi il compito non solo di vigilare il rispetto della Direttiva e le eventuali sanzioni commesse, ma anche di pianificare correttamente gli interventi, in modo che l’adeguamento non vada a peggiorare le situazioni attuali dei singoli Stati.