Le normative comunitarie approvate tra 2018 e 2019 nell’ambito del Clean Energy Package hanno creato una nuova entità chiaramente distinta dalle tradizionali imprese del settore energetico e importante nella decarbonizzazione: la comunità energetica. Dopo una prima trasposizione in via transitoria alla fine del 2019, la disciplina comunitaria al riguardo è stata pienamente recepita nell’ordinamento italiano a dicembre 2021. Le comunità energetiche sono al momento una nicchia di mercato in Italia, ma il potenziale teorico di questa nuova modalità di produzione e consumo è promettente, come pure il contributo possibile in vista degli obiettivi di consumo di energia rinnovabile al 2030. Il ruolo delle comunità energetiche potrebbe essere particolarmente importante anche in uno scenario, non improbabile, in cui gli investimenti in impianti di larga scala dovessero scontrarsi con una forte opposizione locale. Il presente Position Paper descrive il modello adottato in Italia per le comunità energetiche rinnovabili, evidenzia gli elementi rimasti in sospeso e discute i punti di forza e di debolezza della normativa italiana. In conclusione, l’analisi si sofferma su tre aspetti chiave in grado di condizionare il successo e l’utilità di questa nuova entità: l’inclusività verso i segmenti di consumo più vulnerabili, l’apertura a una prospettiva multi-vettore, la validità degli strumenti di mediazione e facilitazione esistenti nel promuovere l’adesione dei consumatori.
Comunità energetiche. Di cosa si tratta?
Se ne è discusso molto e l’attesa è stata lunga. Poi, dal dicembre dell’anno scorso la disciplina comunitaria che regola le cosiddette “comunità energetiche” è stata pienamente recepita anche nel nostro ordinamento. Ma di cosa si tratta? Le esperienze già in essere aiutano a capire. Il piccolo borgo di Osimo, tra le colline marchigiane, si è dato l’obiettivo di ridurre del 60% il suo prelievo di elettricità dalla rete pubblica e del 25% il suo consumo di gas naturale. Come? Grazie all’uso intelligente di energia rinnovabile prodotta “a km0” e a una gestione innovativa della rete di distribuzione locale. O ancora. A Villanovaforru, un piccolo centro della Sardegna, famiglie e imprenditori locali soddisferanno presto parte dei loro consumi elettrici grazie a un impianto fotovoltaico condiviso realizzato sul tetto della palestra della scuola media comunale. I costi di gestione e realizzazione sono stati interamente coperti dall’amministrazione comunale, che si fa portavoce di un nuovo modello collettivo di produzione e consumo.
Si sta quindi andando verso un sistema energetico puntellato di molteplici “isole energetiche”, meno dipendente dalla rete di trasmissione centrale e più partecipato da cittadini, PMI ed enti locali? Il fenomeno è in piena crescita. I “sistemi locali di autoproduzione e autoconsumo” si stanno moltiplicando in Europa, sostenuti anche da diversi programmi di finanziamento dell’Unione Europea (UE).
Creare una cornice regolatoria favorevole ai sistemi locali di autoproduzione e autoconsumo di energia è uno dei pilastri della strategia europea per raggiungere entro il 2030 almeno il 32% di quota di energia rinnovabile nel consumo finale lordo di energia nei settori dell’elettricità, del riscaldamento e raffrescamento e dei trasporti. Ed è proprio in questo contesto che la normativa europea ha creato una nuova entità, chiaramente distinta dalle tradizionali imprese del settore energetico e importante nella decarbonizzazione: la comunità energetica.
Il coinvolgimento della società civile nella produzione locale di energia non è completamente nuovo in Italia, ma rimane una nicchia. Se esistono storiche cooperative idroelettriche nell’arco alpino e alcune cooperative per la produzione di energia solare, si tratta di numeri molto inferiori (qualche decina) a quelli del Nord Europa, dove si concentra la maggior parte delle oltre 3500 cooperative di energie rinnovabili presenti in Europa.
Eppure, nonostante questo punto di partenza, è possibile una diffusione su larga scala dei sistemi locali di autoconsumo e delle comunità energetiche in Italia. Il potenziale teorico appare, infatti, significativo. Il PNRR stima che comunità energetiche e sistemi di autoconsumo collettivo potrebbero prestare un contributo nel periodo 2022-2026 di almeno circa 2 GW di nuova capacità di generazione rinnovabile (2,5 TWh/anno nell’ipotesi di un ricorso prevalente a pannelli fotovoltaici), pari a circa il 7% del totale di capacità di generazione rinnovabile necessaria a raggiungere il traguardo del 30% del totale dei consumi di energia finale al 2030 (6 GW all’anno). Altre stime parlano di 20.000 comunità energetiche rinnovabili potenzialmente realizzabili in Italia, oltre 3,5 GW di nuova capacità di impianti fotovoltaici, 1,3 GWh di capacità di accumulo installabile e 5,5 GWh di perdite di rete evitate ogni anno. Se il potenziale esiste, l’effettiva diffusione dipenderà da diversi fattori tra i quali non bisogna dimenticare l’attrattività del quadro normativo italiano, la sua capacità di non porre ostacoli allo sviluppo (per un’analisi dettagliata rimandiamo al Position Paper n. 201).
I prosumer. Da consumatori passivi a produttori di energia
Il pacchetto normativo Clean Energy for All Europeans, approvato tra 2018 e 2019, riconosce un ruolo molto importante alla partecipazione dei consumatori domestici e industriali nella transizione energetica. Storicamente consumatori passivi di energia, grazie alla diffusione delle energie rinnovabili distribuite questi sono diventati attivi come singoli autoproduttori (“prosumer”). L’ambizione del nuovo pacchetto europeo è creare “cittadini energetici”, che possono essere co-utilizzatori e co-proprietari di impianti di generazione rinnovabile condivisi di varia scala. Ma qual è il quadro normativo in cui sono inseriti autoconsumo e autoproduzione? Le Direttive UE 2018/2001 (nota anche come “RED II”) e 2019/944 (“IEM”) danno indicazioni sull’inquadramento previsto per queste nuove entità collettive nell’ambito del Mercato Interno dell’Energia. Le due Direttive descrivono tre possibili schemi:
- Autoconsumatori di energia rinnovabile che agiscono collettivamente.
- Comunità di energia rinnovabile (CER).
- Comunità energetiche dei cittadini (CEC).
Essi rispondono con modalità diverse all’esigenza da un lato di aumentare il contributo delle fonti rinnovabili e l’offerta di flessibilità, dall’altro di facilitare la partecipazione alla transizione energetica dei consumatori, in particolare residenziali e piccole e medie imprese.
Anche il PNRR prevede finanziamenti specifici, destinando a comunità energetiche rinnovabili e sistemi di autoconsumo collettivo 2,20 miliardi di euro, quasi un decimo del totale previsto per favorire la crescita delle fonti rinnovabili. A queste grandezze si potrebbero aggiungere almeno parte degli 1,5 miliardi di euro destinati alla promozione del cosiddetto “agrisolare”, cioè all’installazione di pannelli fotovoltaici sui tetti di edifici a uso agricolo. Non è da escludere, infatti, che una parte della nuova capacità fotovoltaica realizzata sui tetti di edifici a uso agricolo possa confluire all’interno di una delle due forme di aggregazione per l’autoconsumo. Il PNRR specifica al momento che gli obiettivi della linea di investimento focalizzata sull’autoproduzione e autoconsumo collettivo saranno:
- Sostenere le “aree in cui si prevede il maggior impatto socio-territoriale”, in particolare pubbliche amministrazioni, famiglie e micro-imprese in Comuni con meno di 5mila abitanti e a rischio spopolamento.
- Promuovere la realizzazione di impianti di piccola taglia, il cui sviluppo potrebbe bilanciare la scarsità strutturale di appezzamenti di grandi dimensioni da destinare alla generazione rinnovabile.
Il primo obiettivo potrebbe rivelarsi particolarmente interessante se si immagina che le comunità di energia rinnovabile possano rappresentare nel prossimo futuro un’opportunità di rinascita economica e tecnologica e di miglioramento della coesione sociale nei borghi storici e nelle località più isolate, in linea con lo spirito della legislazione comunitaria. Una “produzione di energia sostenibile a km0” si potrebbe ben sposare con i borghi storici che vogliono dare energia all’economia locale e hanno già puntato sulla promozione della produzione locale in altri settori (artigianato, agroalimentare).
Vantaggi ambientali, ma anche sociali
Non solo ambiente. I diversi schemi di autoproduzione e autoconsumo collettivo possono infatti aiutare a promuovere forme di partecipazione democratica nei nuovi progetti o investimenti, migliorare l’inclusione sociale e ridurre la povertà energetica. A questo si aggiunga l’opportunità di aumentare la comprensione e l’attenzione delle persone rispetto ai mercati dell’energia ed infine, punto cruciale nell’ottica della transizione energetica, facilitare un avvicinamento dei singoli e delle comunità alle nuove tecnologie esistenti per la generazione rinnovabile e il consumo flessibile.
Democratizzazione e accettazione sociale della transizione energetica si potranno valutare in almeno due modi. In primo luogo, sarà interessante monitorare la “velocità di replicazione” di questo nuovo modello di produzione e consumo sia presso altre nuove comunità, sia presso singoli consumatori interessati a investire autonomamente nell’autoproduzione da fonti rinnovabili, magari coinvolgendo anche territori e cittadini più a basso reddito.
In secondo luogo, sarà importante considerare il possibile contributo delle comunità di energia rinnovabile al raggiungimento degli obiettivi di consumo di energia rinnovabile al 2030. Questo sarà ancora più decisivo in uno scenario, non improbabile, in cui gli investimenti in impianti di larga scala dovessero scontrarsi con una forte opposizione locale, già oggi manifesta.
Quindi, il loro maggior o minor successo dipenderà, da un lato, dall’adeguatezza e chiarezza di lungo periodo degli indirizzi e strumenti forniti dal legislatore nazionale agli operatori del settore energetico e alle amministrazioni locali per governare la selezione e realizzazione di nuove grandi infrastrutture. Mentre dall’altro, saranno necessarie disponibilità e capacità delle amministrazioni e stakeholder locali e dei piccoli consumatori a diventare parte attiva del cambiamento.
Elettricità e non solo
Affinché le comunità energetiche possano servire al meglio gli obiettivi di decarbonizzazione, è importante che siano libere di agire non solo nei settori dell’elettricità, ma anche in quello del riscaldamento e raffrescamento e dei trasporti in una prospettiva che possiamo definire multi-vettore. Il decreto legislativo entrato in vigore dal 15 dicembre 2021 sembra offrire un’interessante apertura in questo senso, poiché cita esplicitamente la possibilità per la comunità energetica di essere attiva anche nella promozione di interventi di domotica ed efficienza energetica, di offrire servizi di ricarica di veicoli elettrici ai propri membri, ed infine di incaricarsi di servizi di vendita al dettaglio di elettricità e fornitura di servizi ancillari e di flessibilità.
Ma cosa potrebbe agevolare lo sviluppo di una prospettiva non solo “elettrico-centrica” ma multivettore? In primo luogo, ammettere esplicitamente le comunità energetiche ai regimi di sostegno per la produzione di energia termica da fonti rinnovabili. Questo è già previsto nel nuovo decreto legislativo: la soluzione italiana infatti prevede che le comunità energetiche possano godere di incentivi per diversi vettori energetici (elettrico, termico) e possano offrire molteplici servizi energetici.
Permettere alle infrastrutture esistenti per riscaldamento e raffrescamento, come le reti di teleriscaldamento, di partecipare a una comunità energetica, potrebbe anche essere importante (in Austria già accade). Questo passaggio non è scontato in uno scenario in cui le infrastrutture sono detenute e controllate da aziende del settore energetico, che quindi, per definizione, sono escluse dalla partecipazione nelle comunità energetiche. Inoltre, tutto ciò potrebbe richiedere una fase di sperimentazione e di studio. Esperienze di altri Paesi membri evidenziano alcuni casi in cui le reti sono diventate di proprietà di una cooperativa di cittadini non controllata da aziende del settore energetico.
Da soli o insieme?
Perché vi sia reale sviluppo è importante trovare un accordo tra i potenziali membri, cioè soggetti diversi, con interessi ed esigenze talora divergenti. Questo punto è particolarmente delicato nel contesto italiano, storicamente meno propenso a forme collettive di consumo e in cui le comunità energetiche potrebbero risultare spiazzate da schemi alternatividi incentivazione all’autoproduzione, anche individuale, come il “Superbonus”, attrattivo in termini di risparmio fiscale, molto pubblicizzato sulla stampa anche generalista ed infine meno complesso in termini di interazioni con i pari e indipendenza decisionale.
A questo tema ne va aggiunto un altro come l’utile presenza di un soggetto esterno che oltre ad essere incaricato di seguire le pratiche amministrative necessarie all’instaurazione della comunità funga da facilitatore delle interazioni e del raggiungimento di un accordo tra i membri della futura comunità. Infine, anche per contrastare costi particolarmente alti, varrebbe la pena considerare e promuovere altre forme di partecipazione dei cittadini ai progetti di energia rinnovabile, meno rigide dal punto di vista giuridico come modelli di “crowdfunding” per progetti di energia rinnovabile, partecipazione finanziaria, tramite azioni o obbligazioni, di cittadini e istituzioni nei progetti di energia rinnovabile sul territorio o il finanziamento dei residenti in un territorio di progetti locali di energia rinnovabile sviluppati, gestiti e di proprietà dell’azienda energetica attiva sul territorio (modello “community solar”). Ugualmente si possono immaginare modelli dove l’amministrazione locale accentra maggiormente la gestione, come nelle Community Choice Aggregations (CCA) negli Stati Uniti dove i governi locali di acquistano energia per i loro residenti da un fornitore di energia rinnovabile.
Comunità energetiche: l’impatto sul mercato
La transizione energetica iniziata già nella seconda metà degli anni Duemila ha messo alla prova diversi aspetti del business tradizionale, che si è trovato a fare i conti con i contributi crescenti delle nuove fonti rinnovabili intermittenti, spesso connesse alle reti in media e bassa tensione. Lo scenario delineato nel pacchetto Clean Energy For All e, a maggior ragione, le proposte del pacchetto Fit for 55 presentato a luglio 2021 prevedono un cambiamento ancora più dirompente e delineano un contesto in cui un’attenta valorizzazione della flessibilità offerta dai piccoli consumatori sarà cruciale per garantire la sicurezza delle forniture e un uso efficiente delle risorse.
In questo senso, le imprese del settore energetico potrebbero vedersi relegate a un ruolo marginale o passivo, dal momento che la legislazione comunitaria prevede che queste modalità di autoproduzione e autoconsumo collettivi siano riservate a soggetti per i quali il settore elettrico non rappresenti l’attività principale.
Ma le comunità energetiche potrebbero anche essere l’occasione per sviluppare nuovi modelli di business. In un contesto di sempre maggiore integrazione tra settori contigui, come l’elettricità, la mobilità, il riscaldamento e raffrescamento e l’installazione di impianti per l’autoproduzione di energia e calore, le imprese storicamente attive nel settore elettrico possono trovare un vantaggio competitivo nel proporsi come fornitori su più fronti.
Se da un lato la necessità di predisporre offerte di fornitura integrate potrebbe rappresentare uno svantaggio per i piccoli operatori, costretti a competere in settori in cui le economie di scala e di apprendimento potrebbero avere un peso rilevante, dall’altro le piccole aziende multi-utility potrebbero godere di un vantaggio competitivo rispetto ai grandi operatori nazionali sia in virtù della loro esperienza su più settori, sia in virtù del loro legame consolidato con il territorio.
In aggiunta o in alternativa a questa strategia, le imprese del settore energetico e le multiutility potrebbero proporsi come interlocutori per le comunità e gli enti locali, mettendo a disposizione degli aspiranti autoproduttori e autoconsumatori la propria esperienza per realizzare e gestire i progetti proposti dal basso. La capacità di ascolto e il legame con il territorio potrebbero, in questo caso, rappresentare un punto di forza in vista della sfida della transizione energetica e una leva di resilienza di fronte a potenziali rischi futuri.